“We choose peace”
C’è trepidazione dietro il muro chiuso del sipario. I ragazzi sono ammassati sul palco, nascosti alla vista dei primi spettatori che stanno prendendo posto in platea proprio in quel momento. Sembra di stare in una classe di duecento alunni: molti chiacchierano tra loro a bassa voce (anche se non dovrebbero), sghignazzano senza farsi vedere (o almeno, così credono), si scambiano sguardi, sorrisi e qualche barzelletta scema. Alcuni sono così stremati che se ne stanno sdraiati sulla schiena, altri invece si rosicchiano le unghie per l’agitazione, altri ancora ripensano mentalmente alle battute da dire in scena, in un ripasso dell’ultimo minuto persino più disperato di quelli fatti alle 7.58 di mattina. Le ragazze si lamentano per la gonna, il rossetto, il nastro nei capelli, il caldo, l’ansia, la puzza e per almeno un’altra mezza dozzina di motivi. I maschi invece, mettono in atto comportamenti tipici degli uomini primitivi, quali scaccolarsi, mettersi le mani addosso, rotolarsi sul pavimento e annusarsi a vicenda le ascelle. I prof, esasperati e pericolosamente vicini a una crisi di nervi, sorvegliano la situazione dalle quinte laterali, fulminando con lo sguardo chiunque osi alzare troppo la voce o rompere l’ordine millimetrico delle file. Nonostante la stanchezza, nulla deve essere lasciato al caso. Dopo mesi e mesi di fatiche, ore di lezione sacrificate, prove interminabili e progettazione instancabile, tutto è pronto: la “Veglia della Pace” sta per cominciare.
Alle nove in punto, il tintinnio di un campanello riecheggia nell’aria immobile. Le bocche si chiudono di colpo, i corpi accasciati si alzano in fretta, le schiene si raddrizzano. E’ stupefacente: quella classe prima così disorganica, ora sembra un plotone. Il teatro piomba nell’oscurità, mentre una luce vivida piove non su un branco di adolescenti, ma su un coro di ragazzi e ragazze splendidi, composti, luminosi. Chissà, forse in classe dovremmo guardarli come se fossero sempre così.
Maria Bonaretti, la referente del progetto, esce davanti al pubblico per un breve discorso introduttivo.
Più di cinquecento paia di mani la applaudono, poi cala il silenzio.
Infine, finalmente, il sipario si apre.
“Si componga la pace, perché la pace è il grande bene, ma la pace viene solo da Dio”. Sono le parole di un sacerdote a noi molto caro, Don Pietro Margini, che già nel maggio del 1975 rifletteva su una tematica spaventosamente attuale ancora oggi. Sulle sue orme, noi delle scuole familiari ImmaginaChe abbiamo deciso di rispolverare la tradizione delle veglie della pace, volute da Don Pietro stesso tra gli anni sessanta e settanta, con l’obiettivo di mettere in scena sul palco dell’Ariosto il risultato delle nostre riflessioni. Un viaggio fatto di canzoni, pantomime, lettere, racconti e poesie che ci hanno aiutato a riflettere su una domanda vecchia come il mondo, ma che ultimamente sembra essere sulla bocca di tutti: “Ma la pace, che cos’è?”.
Chissà, forse in classe dovremmo guardarli come se fossero sempre così.
Come ogni opera teatrale che si rispetti, anche il nostro spettacolo era diviso in tre “atti”. Nel primo di essi ci siamo concentrati su tutto ciò che in questo mondo non porta pace. “Non c’è pace nelle parole che feriscono più delle armi e nemmeno nel cuore di chi è diviso. Non c’è pace negli amici falsi, nella superficialità e nelle discussioni in famiglia” proclamavano con voce stentorea i primi attori apparsi sul palco. Dopodiché, sulle note del “Palladio” di Jenkins, al ritmo cupo di un cuore gonfio di dolore e che batte a stento, ha fatto il suo ingresso il gruppo dei nostri abili ballerini, che hanno mimato scene di violenza e sopraffazione per sottolineare la profonda inquietudine di un mondo che sembra essere incapace di pace.
Il secondo atto invece, ha messo in luce proprio la domanda: “Cos’è la pace?”, attorno a cui ne sono emerse tante altre, non meno provocatorie, che i ragazzi hanno rivolto prima al pubblico, quasi in segno di sfida (“La pace chi la deve fare? Perché le persone si odiano anche senza conoscersi? Perché mamma e papà litigano?”), e poi direttamente a Dio (“Dio, perché la pace è così difficile? Gesù sei venuto a portare la pace o la spada?”), implorandolo di far sentire la Sua voce, nella canzone “Parole e Silenzi”.
Infine, nel terzo e ultimo atto, il più esteso dei tre, bimbi e ragazzi hanno provato a dire la loro, attraverso il racconto delle tantissime esperienze di pace vissute quest’anno. Gli spazi di silenzio tra “Preferisco il Paradiso”, “Che sia benedetta”, “Waymaker” e altri canti meravigliosi, sono stati dedicati a operatori di pace illustri, quali Bernadette Spaggiari, San Filippo Neri, San Benedetto, Jerome Lejeune, Carlo Acutis e San Francesco d’Assisi, uomini e donne santi che i ragazzi hanno avuto modo di approfondire grazie a esperienze indimenticabili e con i quali hanno creato un clima di vera e propria familiarità.
Arrivati a questo punto, dopo aver visto per ben due sere di fila centinaia di persone applaudire a ogni canzone, chiedere il bis e uscire dal teatro con gli occhi e il cuore pieni di gioia, possiamo affermare con certezza che questa Veglia della Pace sia stata un successo su tutta la linea. Il merito più grande credo lo abbiano proprio i protagonisti di questo evento: i nostri ragazzi. A loro auguriamo di avere il coraggio di essere testimoni di Pace (quella vera) sempre di più e di fare proprie le parole di quella canzone a cui tutti siamo ormai affezionati:
Voglio ricominciare da zero
Attraversando la porta del cielo
E urlare al mondo spaventato e deluso
Puoi sperare ancora, esiste il Paradiso
(Reale, “Alla porta del cielo”).
Prof. Jacopo Azzimondi
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