Comments are off for this post

Dj Fabo e don Vincent, la malattia e il senso della vita

Dopo l’enorme impatto mediatico suscitato dalla decisione di Dj Fabo di porre fine alla sua vita in Svizzera, giovedì 9 marzo, in un’aula magna del Seminario di Reggio Emilia gremita, don Vincent Nagle ha raccontato della sua esperienza a contatto con i malati, alle frontiere dell’umano.

Don Vincent, sesto di otto fratelli, è cresciuto nelle foreste della California e, dopo un passato da Hippie, ha sentito la chiamata del Signore: ora è prete missionario della Fraternità Sacerdotale San Carlo Borromeo. E’ inoltre cappellano della Fondazione Maddalena Grassi di Milano, che si occupa a 360 gradi di malati gravi.

Nel corso della conferenza ha parlato del suo servizio vicino ai malati, del senso di inadeguatezza davanti a certe situazioni, nelle quali mancano le parole stesse per accostarsi alla sofferenza: qui soccorrono la preghiera, senza la quale non è possibile vivere il suo particolare incarico, ma soprattutto la consapevolezza che il Mistero è all’opera.

C’è solo una questione vera nella vita: tutto, l’amore, la famiglia, il lavoro, l’amicizia, la salute, le questioni sociali, politiche, tutto si riduce a una sola domanda: io voglio vivere, ma io devo morire.

Sono interrogativi inquietanti, che ci sgomentano e che preferiamo non affrontare. Per cui spesso, anche nella fede, la nostra preghiera è ripiegata, si ricorre a Dio per risolvere i problemi minuti, per dare una aggiustatina alla nostra tranquilla quotidianità. Noi vogliamo che Dio aggiusti la vita, affinchè un salvatore non ci serva. Non chiediamo la salvezza. Ma ai malati un salvatore serve.

A partire da questa evidenza ha raccontato diversi episodi relativi a esperienze concrete a contatto con i malati, fino ad arrivare a parlare di Fabiano Antoniani, più comunemente conosciuto come dj Fabo, che ha scelto di porre fine alla propria vita nella clinica svizzera Dignitas.

Don Vincent lo ha conosciuto due anni fa, su segnalazione di un fisioterapista che lo seguiva, quando aveva già manifestato l’intenzione di voler morire. Prima dell’incidente che lo ha reso tetraplegico e cieco, conduceva una vita invidiabile per molti: era un Dj di successo a Milano, fidanzato con Valeria, si concedevano insieme prolungati periodi in India, vivevano oltre il limite. Amava la musica e proprio di musica hanno parlato nel loro primo incontro. Una conversazione semplice, in cui è stato stesso Fabiano a pronunciare la parola Dio e che si è conclusa con una richiesta da parte di Dj Fabo: “Torna”. Non è più stato possibile se non pochi giorni prima della sua morte, quando tutto era stato già deciso.

Fabiano si è trovato di fronte al progetto della sua vita tradito, contraddetto, fallito; dapprima ha lottato, poi ha capito che non sarebbe guarito. Schiacciato dalla sofferenza di non potere più sperimentare quella vita che tanto amava, è arrivato al punto in cui ha ritenuto che essa non fosse più degna di essere vissuta perché non riusciva più a essere quello di un tempo. Non è riuscito ad andare oltre, a interrogare il mistero che lo avvolgeva, a porsi davanti alla domanda: cosa vuole il mistero da me? Vita, cosa mi stai facendo? Dove mi stai portando? Padre Nagle ha affermato di avere sempre visto in Dj Fabo un uomo capace di amare. Gli stessi operatori che lo seguivano, alla notizia della sua morte sono rimasti profondamente addolorati.

O la vita o è un progetto, per quanto buono, giusto,creativo, innovativo, divertente… però in fondo un progetto, o la vita è un dono. E i doni sono memoria viva di un rapporto, di un amore. Se la vita è dono implica un rapporto, implica una dipendenza e una responsabilità. L’intuizione della vita come un dono interroga il mistero da cui la mia vita è venuta e interroga quella misteriosa presenza che genera la mia vita ora.. Quando si concepisce la vita come un progetto si cercano risorse, non un rapporto. Le persone stesse sono risorse.

A conclusione della serata, alla domanda di un ragazzo, che si chiedeva come si può portare avanti la battaglia della vita ordinariamente, nelle nostre relazioni, contro una cultura dominante spinta verso la più totale autodeterminazione, la risposta di Don Vincent è stata chiara e impegnativa: quello che si può fare è disporsi a soffrire con l’altro e per l’altro. Un invito che ci interpella tutti, che tutti abbiamo la possibilità di mettere in pratica, a partire dalle relazioni più quotidiane della nostra esperienza.

Condividi: