Omelia XXV Domenica del Tempo Ordinario – Anno B Accompagnati dalle parole di don Pietro Margini (1917-1990), per vivere con frutto questo tempo prezioso.
Sap 2, 12. 17- 20; Gc 3, 16 – 4, 3; Mc 9, 30-37
Il Signore parlava della sua morte, ma parlava non in tono di rassegnazione, quasi a porre qualcosa contro la logica e contro la sua volontà. Gesù vedeva la sua morte come una logica, una cosa che Lui poneva liberamente, come liberamente aveva posto tutti i suoi anni di permanenza quaggiù; la poneva come un servizio, un servizio di amore, un servizio di salvezza e di amore per tutta l’umanità, un servizio e un amore per ogni singola anima, per tutte le anime. Ognuno di noi si deve così sentire profondamente unito a Gesù, unito perché il suo cuore si è dato. Ognuno di noi deve ripetere le parole di san Paolo: “Mi ha amato e si è posto per me, si è dato per me” (Gal 2,20). Un servizio il suo: proprio perché era il più grande, il primo, ha voluto essere l’ultimo e il servo di tutti. È così che dobbiamo imparare, è così che la Chiesa ha accolto il suo messaggio e si è posta a sevizio di tutti, particolarmente a servizio degli ultimi.
E Gesù pone un bambino come il simbolo, il simbolo, perché il più indifeso, il più esposto, il più debole.
Sappiamo bene qual è la tristezza dei tempi presenti: è la tristezza di vedere uccidere le creature ancora prima che nascano, nel vederle continuamente insidiate. I nostri bambini subiscono tutta la nostra violenza: la violenza della nostra vita corrotta, la violenza dei nostri mezzi di comunicazione, della oscenità della nostra stampa, di tutta una struttura sociale che non fa conto di quanta riverenza bisogna circondare i bambini, di quanta delicatezza bisogna fasciarli. È proprio così, lo dobbiamo sempre ricordare: “Chi accoglie uno di questi bambini accoglie me” (Mc 9,37). Soprattutto nei bimbi la fede ci fa vedere il Signore Gesù. E dobbiamo preoccuparci sempre di più, con sempre maggiore intensità, anche nella nostra Parrocchia, perché si verifichi ciò che ha detto il Signore. Per questo triboliamo, anche se poco capiti e poco seguiti, triboliamo per una Scuola Materna e triboliamo con l’Oratorio e con tutte le iniziative che suscita l’Oratorio. I genitori lo devono ben capire; i genitori devono non chiudersi nei loro schemi, ma collaborare con forza, collaborare alla Chiesa che educa, alla pedagogia in particolare della Chiesa che educa. Ci dobbiamo rammaricare che tante volte questa collaborazione non c’è; ci dobbiamo rammaricare perché non sempre si capisce a quali pericoli vengono sottoposti i nostri bambini e la nostra gioventù. E si vuole essere moderni, e si vuole essere aperti, e si tace, impegnati nell’apostolato dichiusura, proprio perché si chiudono gli occhi di fronte alle realtà, di fronte ai grandi pericoli e alle angosce di questo nostro mondo, il mondo della sfacciata immoralità e della droga, il mondo in cui vengono contaminati anche i valori più sacri.
Sentiamoci impegnati a intensificare la nostra opera, a intensificarla con umiltà, con grande perseveranza. E ognuno di noi senta così, che la carità vera è la carità che si traduce in servizio, che la carità vera è quella che ci deve impegnare fino in fondo, fino nel concreto, fino alle piccolissime cose di ogni giorno. Ci sono delle bocche che sono solo piene di parole, ma le parole non sono seguite da fatti. Cerchiamo di tradurre e di tradurre con forza in quelle opere di carità, di umiltà, di fervore che il Signore ogni giorno fa capire a noi e alla nostra comunità.