Omelia VI Domenica del Tempo Ordinario, 16 febbraio 2020
Commento per la Gazzetta di Reggio
Ci sono momenti in cui la vita ci sembra appesa ad un filo, la morte di una persona cara, il ricovero improvviso di un amico, la vita di un piccolo che dopo tante peripezie riparte con vitalità; ce ne sono altri in cui, al contrario, ci sembra di essere talmente forti da poter conquistare il mondo, di tenerlo tra le mani come se tutto fosse ai nostri piedi, animati come siamo da una speranza che procede a testa alta in mezzo gli imprevisti dell’esistenza: quando ad esempio facciamo scelte di vita, o nel momento in cui godiamo di un ‘successo’ atteso da tempo, nello studio, sul lavoro, nello sport, oppure quando respiriamo di una ‘eterna giovinezza’ che non sembra mai finire.
Che assonanza possiamo trovare tra quello che il Signore proclama nel Vangelo di questa domenica e la considerazione fatta poc’anzi? ‘Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti: non sono venuto ad abolire, ma a dare il pieno compimento’. E, rivolto ai suoi discepoli, aggiunge: ‘Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli’ (Mt 5,17.20).
Avvertiamo nel nostro intimo un desiderio insopprimibile di bucare il tempo e di riempirlo di significato, perché sia nostro amico, anche quando si presenta con la faccia scura. Non bastano le sole regole, che possiamo accogliere come un pedagogo che ci orienta alla verità, senza per questo essere la verità; né tanto meno la sola spontaneità, che se da una parte rivela la nostra partecipazione alla vita, dall’altra non può spiegarcela. C’è bisogno di una giustizia superiore, che anche Gesù esige, che ci permetta di affrontare il tempo che abbiamo con sapienza. ‘Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono’ (Mt 5, 23-24). Per l’uomo, c’è una sola sapienza che crea una breccia nel tempo, trasformandolo da tempo che passa ad un esperienza divina: il dono di se’, che è la misura non misurabile del mistero di Dio Padre, l’annuncio più atteso che trasforma l’individuo singolo in una persona capace di relazione e di comunione. Ci è chiesta una passività costruttiva, che non dipende dalla nostra ‘bravura’, e che incontra la profondità di noi stessi nel momento in cui maturiamo la disponibilità ad ascoltare l’annuncio che la vita porta con se’. Perché ci sentiamo spesso soli in mezzo alle burrasche, e altrettanto quando crediamo di avere fatto tutto per stare bene? Perché ci siamo dimenticati chi siamo, quel dna che risulta essere la cifra del nostro esserci, voluto da Colui ci ha donato la vita. ‘Per poter comprendere chi siamo abbiamo bisogno di sapere che siamo di qualcuno. Siamo in grado di dire: «Io» solo dopo che qualcuno ci ha detto: «Tu». «Tu sei il mio figlio amato, è bene che Tu esista». Questa è la parola fondamentale, capace di avviare il processo educativo e di spingere alla conquista della propria identità. (Vescovo Massimo Camisasca, ‘Abita la terra e vivi con fede’, 2020).