16 aprile 2025
Cari amici, care comunità e carissimi giovani,
la Liturgia in questo tempo quaresimale ci invita alla meditazione della nostra condizione umana, che si apre alla contemplazione della storia della salvezza, personale e cosmica. Qual è il senso e il fine della nostra esistenza? Chi può liberarci dal male che sentiamo bruciare in noi e che vediamo divampare nel mondo? Dove troveremo la forza?
«Creati per la gloria del tuo nome,
redenti dal tuo sangue sulla croce,
segnati dal sigillo del tuo Spirito,
noi t’invochiamo: salvaci Signore»[1].
Quell’Uomo inchiodato e appeso alla croce, «disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire» (Is 53,2), interroga silenziosamente e ostinatamente tutti gli uomini, in modo ancora più provocatorio di quando camminava per le strade di Galilea con i suoi discepoli. Nessuno può sottrarsi alla risposta: «Voi, chi dite che io sia?».
A quanti umilmente lo riconoscono (cfr. Mt 10,32) apre le porte del Regno: «In verità ti dico: oggi con me sarai in paradiso» (Lc 23,43).
L’uomo moderno ha bisogno di ricentrare il suo sguardo sulla croce. Di fronte al male, al dolore, al senso di precarietà e al clima di pericolo che è diventato così pervasivo e opprimente, ha scelto di incolpare Dio e di cercare in sé stesso la salvezza.
Questa strada, tante volte percorsa nella storia, porta quantomeno l’uomo alla disillusione, se non alla disperazione, e conduce alla rovina gli imperi, i regni e le culture. In un certo senso lo ammette anche il filosofo Cioran, che pure non fa mistero del suo ateismo e della sua avversione per il cristianesimo: «si distrugge una civiltà soltanto quando si distruggono i suoi dei»[2].
Eppure, l’uomo nell’intimo del suo cuore è costretto ad ammettere di avere bisogno di una redenzione che non si può dare da solo, se non vuole mentire a sé stesso. Lo scrittore e intellettuale francese Jean d’Ormesson, nel testamento spirituale dettato alla figlia poco prima della morte, dopo aver chiarito che «Dio, la necessità, il caso e l’ereditarietà» gli hanno rifiutato il dono della fede, confida: «la miglior cosa che possiamo sperare da questo mondo, è che ci serva di passaggio e di introduzione a un mondo di verità e giustizia – se esiste»[3].
A questa sete offre sollievo l’annuncio cristiano, particolarmente quando accolto e trasmesso da una comunità di credenti.
L’unità fraterna dei cristiani, invocata da Gesù il Giovedì Santo, è necessaria «per rimanere nell’unità con il Signore crocifisso e risorto»[4]. Qui sta la realtà profonda della prima comunità cristiana descritta negli Atti, che abbiamo desiderato porre come incipit della nostra Regola: «Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere» (At 2,42).
Come alla prima comunità, anche a noi oggi è chiesto l’impegno della testimonianza. Siamo «stranieri e pellegrini» (1Pt 2,11) per le strade del mondo, come ci ricorda l’anno giubilare indetto da Papa Francesco.
Accogliamo la sua esortazione a metterci in cammino a fianco di tanti fratelli, ai quali offrire la consolazione dell’amicizia e la gioia dell’unica speranza che non delude: il Signore è Risorto!
Buona Pasqua!
Marco Reggiani
[1] Ufficio delle letture, Inno della quinta settimana
[2] E. Cioran, Il funesto demiurgo.
[3] J. d’Ormesson, Una preghiera infinita.
[4] J. Ratzinger, Guardare il Crocifisso
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