Intervento di Marco Reggiani
Borzano (Reggio Emilia), 7/10/2011
Appunti, non rivisti dall’autore
Ho resistito alla tentazione di declinare l’invito di don Sergio a parlare nel corso di questa bella serata, perché mi ha assicurato che il mio intervento doveva essere esperienziale, non “scientifico” o teoretico. In questo modo mi sento più a mio agio, e poi noi genitori, quando ci sono temi come quello di stasera, ci poniamo sempre sulla difensiva, e il tema “famiglia culla di ogni vocazione” lo interpretiamo così: “la mia famiglia, è davvero culla di ogni vocazione?” (per le mamme la domanda diventa ancora più radicale e drammatica: sono una brava mamma?). E poi ci giriamo indietro verso i nostri figli e … A seconda di quello che vediamo, o che non vediamo, decidiamo il grado di depressione che ci spetta.
Vorrei rimanere il più fedele possibile al tema della serata. Innanzi tutto mi piace molto la sottolineatura: “di ogni vocazione”. Siamo un po’ abituati – lo dico sperando di non offendere nessuno – a pregare per le vocazioni sottintendendo che preghiamo per le vocazioni sacerdotali, o tutt’al più, per quelle di speciale consacrazione. La società occidentale così come ci si presenta mi suggerisce che forse dovremmo iniziare a pregare proprio per ogni vocazione. Credo che legittimamente ci possiamo porre molto seriamente una domanda. E’ proprio solo un caso che alla crisi che sta affrontando la famiglia in questi decenni, corrisponda anche e in modo parallelo una crisi senza precedenti anche delle vocazioni sacerdotali (per non parlare degli ordini religiosi)? Detto in un altro modo: come mai dove vi sono esperienze vocazionali forti, belle e significative, se ne sviluppano anche altre, analoghe o diverse, altrettanto forti belle e significative? La (piccola) storia delle famiglie della nostra associazione “Comunità delle beatitudini” mette in evidenza questo fatto, cioè come da un sacerdote, don Pietro nello specifico, nella pienezza della propria vocazione, siano nate famiglie che a loro volta si sono realizzate pienamente secondo il piano di Dio, e da queste poi si sono formate altre famiglie e sono nate altre vocazioni sacerdotali. Così mi pare si possa dire anche di altre esperienze, di tutt’altra dimensione e rilevanza. Provo a darne un’interpretazione, magari poi voi suggerirete le vostre.
A me sembra che laddove “sbattiamo contro” a una vocazione pienamente realizzata, riconosciamo anche una pienezza che “invidiamo” e che ci invita a cercare la nostra pienezza, e quindi la nostra felicità. Cioè siamo sollecitati a cercare e a realizzare la nostra chiamata, in analogia o meno con quella che in un dato momento ci ha provocato. E’ singolare che dei quattro figli dei beati coniugi Beltrame Quattrocchi, nessuno abbia formato una famiglia! Non credo che abbiano pensato “Piuttosto che come i miei genitori, meglio frate!”, anzi proprio la loro testimonianza li ha sollecitati a trovare la propria strada. Torno al titolo: Famiglia culla di ogni vocazione. Mi soffermerei sull’immagine della culla che si presta a mio avviso ad alcuni spunti interessanti.
Di una culla colpisce subito quanto è accogliente, tanto è vero che a volte (lo diciamo piano) noi adulti invidiamo quei bambini quando li vediamo dormire così serenamente. Per esperienza posso dire, e lo posso dire anche di altri amici, che non solo la mia famiglia d’origine è stata per me culla della mia vocazione, ma anche altre famiglie che, appunto, sono state accoglienti nei miei confronti, mi hanno aperto le porte della casa e del cuore, mi hanno fatto stare bene e in una parola, mi sono state d’esempio. Allo stesso modo spero e penso che le nostre famiglie possano e sappiano accogliere sempre più e sempre meglio, giovani, fidanzati, altre famiglie.
Poi l’idea della culla mi richiama la necessità della pazienza, di rispettare i tempi di Dio e i tempi dell’altro. Noi stiamo a guardare quei piccoli fagottini che sono dentro alle culle, diamo loro da mangiare e cerchiamo di garantire le condizioni migliori perché possano crescere, ma altro non possiamo fare. Non è che tirando i nostri figli li possiamo allungare, e nemmeno li possiamo gonfiare perché ingrassino (e lo dico per esperienza diretta, visto che il mio primogenito era poco più di un kg alla nascita e mi avrebbe fatto comodo). Così è nella scoperta e nello sviluppo della vocazione: ci sono momenti in cui vorrei poter forzare la mano, spingere in una determinata direzione, chiudere strade e costringere a percorsi obbligati, ma non c’è niente da fare, una vocazione la possiamo accompagnare, anche sostenere, ma non determinare, altrimenti non è più vocazione, cioè risposta libera ad una chiamata, che non siamo noi a fare.
La tentazione di noi genitori, almeno una delle tentazioni, è quella di sentirsi sempre in dolo rispetto a quello che si dovrebbe fare, o che i “genitori bravi” sanno fare. E quando sentiamo qualcuno parlare ci sentiamo un po’ come uno dei protagonisti di “Tre uomini in barca”, che leggendo un trattato di medicina, era strasicuro di avere tutti i sintomi delle malattie descritte, dal tifo al ballo di San Vito, e più andava avanti nella lettura, più si sentiva vicino alla tomba. L’unica malattia di cui non avesse sintomi era il “ginocchio della lavandaia”.
In questa quotidiana fatica dell’educazione, troviamo un certo ristoro quando riconosciamo che la vocazione è chiamata (ma non siamo noi a chiamare) e che ciascuno – dobbiamo esserne certi!!! ma a volte ne dubitiamo – ha la propria; che abbiamo a che fare una cosa ingombrante e a volte scomoda ma sacra che è la libertà dei nostri figli; che siamo i primi responsabili ma che non siamo soli. Penso ai tanti “esperti” nelle varie scienze umane che certamente possono essere di grande aiuto in tante occasioni. Ma penso anche – e qui faccio riferimento anche alla nostra esperienza di comunità di famiglie – ai “compagni di cammino”, cioè alle altre famiglie, che hanno avuto i nostri problemi, successi o insuccessi, con le quali ci possiamo confrontare, consolare, arricchire vicendevolmente.
Se da una parte è vero che occorre avere pazienza, è anche vero che, portata all’estremo, è altrettanto dannosa quanto l’ingerenza più sfrenata. Allora dopo la pazienza, l’idea della culla mi porta al tema dell’attenzione e della capacità di reazione. Le mamme in questo sono esemplari: anche quando apparentemente stanno facendo tutt’altro, magari sono addirittura in un’altra stanza, in realtà hanno le orecchie e gli occhi sulla culla e al minimo segnale, eccole pronte a intervenire, con una reazione adeguata al problema. Su questo non abbiamo bisogno di soffermarci troppo perché è assolutamente evidente che ci sono alcuni segnali di allarme che affrontati per tempo sono occasione di crescita, affrontati in ritardo o non affrontati affatto portano a conseguenze anche molto gravi. Detto così e persino banale tanto è evidente. Dobbiamo però anche ammettere che a volte facciamo molta, molta fatica, come genitori, a riconoscere questi campanelli d’allarme, soprattutto se ci vengono suggeriti da qualche estraneo. Allo stesso modo dobbiamo imparare a saper dosare le nostre reazioni. Quando anni fa eravamo a Fano per i corsi estivi in pastorale familiare, abbiamo conosciuto una famiglia (il papà era diacono) con una figlia in piena “tempesta ormonale”: vestiti striminziti, orari mai rispettati (insomma le solite cose!) ma soprattutto – sottolineo che eravamo al mare – essendo una bella ragazzina, perennemente circondata da un nugolo di “mosconi”. Ricordo ancora che, da una parte la mamma si eclissava (si vedeva che dentro era un fiume di rabbia incontenibile e che se solo avesse aperto bocca…) mentre il papà, paziente, aspettava che lei tornasse, come un’ape regina accompagnata dallo sciame, e poi la abbracciava e la accompagnava verso casa. Non è evidentemente una ricetta (confesso che ai tempi noi tifavamo per la mamma): fatto sta che, nel caso specifico, questa capacità dei genitori – ciascuno a suo modo – di stare vicino alla figlia, di saper accogliere e pazientare mantenendo con coraggio alcune coordinate fondamentali, ha portato qualche anno dopo alla sua splendida maturazione.
Altro tema è quello della pace: a una culla ci si avvicina in silenzio, parlando sottovoce Il silenzio è la capacità di creare degli “spazi” per cui in famiglia ciascuno possa trovarsi solo con se stesso, o con Dio. Così credo che una vocazione si possa riconoscere meglio in un clima sereno, pacifico, dove non si urla, non si litiga, non si critica, anche nelle piccole cose quotidiane e fin da quando i figli sono piccoli. Mi è capitato recentemente di osservare una mamma un po’ sotto stress per le ripetute malattie dei figli, e lo stress si ripercuoteva ovviamente anche sul marito (e viceversa), tanto che il clima non era proprio idilliaco in quel periodo. Bene: un’altra mamma, che da lì c’era già passata, con più esperienza diciamo così, le ha consigliato di farsi forza e di stare più tranquilla, perché “la malattia passa, la serenità rimane” ed incide nella crescita dei figli in modo indelebile. Al contrario il pericolo di un clima perennemente conflittuale e critico è che un bambino o un ragazzo, sia posto sempre nella condizione di dover scegliere: ha ragione mamma o papà? Oppure hanno ragione i mei genitori o che ne so, l’insegnante, l’educatore? Con chi sto? Se tutto è sempre criticabile, allora ogni scelta è equivalente. Chiaramente sto banalizzando ma il rischio – badate bene un rischio – è che non si sviluppi in modo maturo una dimensione fondamentale della personalità che è il senso critico, non secondario quando si tratta di saper scegliere cosa fare della propria vita.
Infine vorrei dire che se è vero che la famiglia è culla di ogni vocazione, è anche vero che è essa stessa cullata dalle varie vocazioni con le quali viene a contatto, dei figli, dei sacerdoti, degli amici, dei giovani ecc. Ho chiesto, in preparazione a questa serata, ad alcuni genitori che hanno figli sacerdoti e figli sposati, che cosa volesse dire per loro che la famiglia è culla di ogni vocazione. E’ una domanda che posta a bruciapelo non lascia tantissimo spazio per risposte articolate, ma una costante l’ho ritrovata: le vocazioni dei figli hanno arricchito e in qualche caso quasi salvato il rapporto coniugale. Leggendo la biografia dei Beltrame Quattrocchi è evidente come la loro vita – materiale e spirituale – si sia di volta in volta adattata e arricchita col crescere e col maturare dei figli, penso ad esempio alle loro fatiche nella preghiera quando avevano i figli piccoli, e alle consolazioni e ai progressi che sono stati loro concessi una volta che i figli sono cresciuti. Ma non è che sono stati santi solo alla fine, tutta la loro vita è stata un continuo processo di maturazione nella dialettica chiamata – risposta.
Per concludere vorrei appoggiarmi su un terreno più solido che non la mia esperienza e le mie impressioni. Leggiamo nella Familiaris Consortio (11), che “l’amore è la fondamentale e nativa vocazione di ogni essere umano”; credo che dobbiamo essere più consapevoli, e avere piena fiducia, che, se c’è un luogo dove una persona possa imparare ad amare, concretamente, quotidianamente, e quindi scoprire la propria vocazione, è proprio all’interno delle nostre belle famiglie.