SANTA MESSA NELL’ANNIVERSARIO DI MORTE DI MONS. PIETRO MARGINI
OMELIA DELL’ARCIVESCOVO MONSIGNOR GIACOMO MORANDI
Sant’Ilario d’Enza – palestra parrocchiale
8 gennaio 2024
Abbiamo udito nel Vangelo l’inizio del ministero pubblico di Gesù. Dopo i trent’anni passati a Nazareth, Gesù inizia il suo ministero e immediatamente, come abbiamo ascoltato, chiama dei discepoli a condividere la sua esperienza.
Li chiama mentre sono sulle sponde del lago di Galilea e, subito, Giacomo, Giovanni, Pietro ed Andrea lo seguono, lasciano tutto e diventano i primi discepoli. Non c’è, in altre parole, un istante del ministero pubblico di Gesù che non sia caratterizzato dalla presenza di Gesù insieme coi suoi discepoli. Possiamo dire che nel Vangelo di Marco sempre e costantemente Gesù è presentato insieme ad una comunità e, quando Gesù li invia in missione, l’evangelista non racconta nulla del ministero di Gesù; racconta l’episodio drammatico del martirio di Giovanni Battista (Mc 6, 21-29), e una volta rientrato dalla missione, riprende Gesù e il suo ministero. Già qui c’è un insegnamento molto importante: Gesù stesso ha mostrato la necessità di un ministero che sia sempre contrassegnato dall’accompagnamento di una comunità. Gesù stesso non ha voluto essere – in altre parole – un libero battitore, ma dentro, inserito, accompagnato, da una comunità di discepoli. Ha formato una comunità. Poi evidentemente li ha mandati proprio per annunciare il Vangelo, ma innanzitutto perché stessero con Lui[1].
Mi pare che questa indicazione del ministero di Gesù che l’evangelista Marco ci offre, ci introduca nella figura e nel ministero così ricco e così vario, per certi aspetti, di don Pietro, il quale ha avvertito, innanzitutto, la necessità di vivere la sua esperienza di discepolo del Signore insieme e dentro ad una comunità, favorendo e formando una comunità di discepoli che diventassero insieme con lui corresponsabili dell’annuncio e della missione.
In questo, possiamo dire, è la sua particolarità e vorrei soltanto, questa sera, richiamarne alcuni aspetti del suo ricco ministero sacerdotale, perché credo che alla base di tutte le sue iniziative ci sia proprio questa consapevolezza: non si può vivere un ministero sacerdotale o ministero di animazione spirituale, se non si crea attorno a sé e se non si desidera attorno a sé una comunità di discepoli che, a loro volta, diventano corresponsabili dell’annuncio e non semplicemente i destinatari di un annuncio.
Credo che una delle prime caratteristiche del ministero di Don Pietro sia stata l’umanità sacerdotale, capace di intessere relazioni. Sin dagli anni del Seminario, quando era responsabile di camerata, era capace di interessarsi della vita, degli studi dei suoi amici del Seminario. Così come nel suo inizio di ministero è stato da alcuni definito “un animale da cortile”: una persona capace di vivere immersa dentro alla realtà, capace di vivere un’immersione nella quotidianità e nella vita delle persone. Uno può dire che questo dovrebbe essere ovvio. Non lo è affatto, perché tante volte nel ministero sacerdotale uno dice, o pensa, o ritiene, che questi non siano momenti qualificanti del ministero, che non si possa perdere tempo stando in mezzo alle persone, “perdendo” tempo che poi Don Pietro sapeva ampiamente recuperare in quelle notti passate nella preghiera, nello studio e nell’approfondimento della Sacra Scrittura, della teologia e dell’esperienza dei santi.
Un’intelligenza relazionale, cioè capace di entrare là dove le persone – i giovani soprattutto – sono, con quel tipico atteggiamento che aveva in don Bosco un grande maestro, un punto di riferimento. Bisogna stare con le persone, bisogna vivere con loro. Bisogna condividere. Bisogna salutare, bisogna – usiamo pure l’espressione – “perdere tempo” e don Pietro ha compreso che ogni possibile servizio ed educazione alla Fede passa nel dare il dono più prezioso che noi abbiamo a disposizione: il tempo. Il nostro tempo.
Ma questa scelta di spendere il proprio tempo in mezzo alle persone, in mezzo ai giovani e non solo, aveva un obiettivo: impostare un dialogo personale, fatto di incontri, di direzione spirituale, di confessioni, di scoperta vocazionale. Possiamo dire che in questo don Pietro è stato un po’ esagerato! Proprio così. Nonostante l’esperienza della malattia giovanile che lo ha portato in punto di morte e che avrebbe suggerito parsimonia della propria salute e del proprio tempo, quest’uomo si è consumato nell’incontrare personalmente, perché – lo sappiamo bene – la via regale dell’evangelizzazione è la relazione personale. Quella relazione personale che portava don Pietro, anche a notte inoltrata, ad accogliere e ascoltare in tutte le occasioni. Quando qualcuno gli diceva “Ma so che ha poco tempo”, replicava don Pietro: “Vieni adesso”. Era il modo per “incastrare” in modo incontrovertibile la persona che pensava di poter “sfuggire” a quell’incontro che avrebbe sicuramente lasciato un segno profondo nella sua vita. È questo uno dei punti essenziali del suo ministero e che, a mio modo di vedere, ci aiuta a capire che il cammino di educazione alla fede, di esperienza della fede, passa attraverso il dialogo, l’ascolto, la capacità di entrare dentro al cuore, di sentire e di avvertire anche con grande rispetto, ma anche con grande lucidità ciò che passa nel cuore delle persone e avere una parola che, se prima era una parola generica, ora diventava personale.
Don Pietro ha donato un cibo solido e ha privilegiato una via, quella degli esercizi spirituali. Quarantasei quaderni di appunti, dove emerge tutta la sua capacità di leggere la Parola del Signore, di approfondirla – ho scoperto che uno dei suoi autori era Galbiati, un grande biblista che è stato pioniere di tanti studi sulla Parola di Dio – accanto al magistero della Chiesa e al magistero dei santi. Oltre che il magistero dei teologi, San Tommaso, Sant’Agostino, San Bernardo e dei Padri della Chiesa, il magistero dei santi. In questi quaderni, nei suoi scritti, continuamente troviamo la capacità di mostrare esempi concreti attraverso i quali la Parola di Dio, l’esperienza cristiana è stata vissuta e realizzata. Un cibo solido che è costato a lui notti di studio, tempo sottratto al riposo, ma proprio nella consapevolezza che tanto doveva donare a coloro che si affidavano ai suoi consigli e alle sue parole.
Certamente, l’aspetto decisivo della sua esperienza di credente è stata l’Eucarestia, “che è un mistero di silenzio, [che] nasconde dietro quel silenzio l’impeto, il fragore dell’uragano” (Don Pietro Margini, Meditazioni sui Salmi, Vol. 1, salmo 17, pag. 151). Da dove attingeva don Pietro la forza di portare avanti un ministero quando le forze e le fatiche si facevano sentire, se non dall’Eucarestia? Centro e cuore della sua vita sacerdotale. Tanto Egli ha dedicato nei suoi scritti a comprendere, partendo dall’Antico Testamento, il valore insostituibile dell’Eucarestia che costituisce il cuore della vita di ogni credente e di ogni comunità.
Egli, però, ha compreso in modo profetico che la famiglia e in particolare le comunità di famiglie sarebbero state la via della Chiesa, la via dell’annuncio e dell’evangelizzazione. La famiglia come il luogo privilegiato di un’autentica trasmissione della fede. E ha insegnato questa capacità di vivere non solo nella propria vita familiare questa pienezza, ma condividendo nella comunità delle famiglie queste esperienze. Piccole comunità di famiglie nelle quali si condividono l’ascolto della Parola di Dio, la preghiera, le esperienze, e che diventano per coloro che ne partecipano un segno di grande aiuto e di grande consolazione. Un segno, inoltre, di questo rapporto inscindibile tra la vita delle famiglie e la vita dei presbiteri, in modo tale che si crei proprio uno scambio fecondo di doni e di testimonianze.
Perché voi sapete che anche le famiglie, i genitori, il papà e la mamma sono chiamati alla santità! Anche i presbiteri, eh! Io ho dei fratelli e sorelle sposati con tanti figli, e a volte io vado a casa: tanta gioia, tanto entusiasmo, tanta consolazione, anche tanta ammirazione, nel vedere come portano avanti la loro vocazione e santità. Ma sapete che a volte io dico al Signore “grazie della mia vocazione”, oltre che della loro, eh! Questa spiritualità battesimale, di essere figli di Dio, che poi si traduce nella vita familiare e nella vita del presbitero con questa profonda condivisione, è una comunione che diventa arricchimento, consolazione, sostegno. Diventa capacità di uscire da noi stessi, anche come presbiteri, a renderci conto che il nostro ministero, il nostro servizio è unicamente per il Popolo di Dio, che non dobbiamo soltanto servire, ma da cui riceviamo tanto, tanto, tanto! Credo che questa sia una profezia.
Don Pietro, in questo senso, offre il messaggio che oggi più che mai la Chiesa deve recepire in questo tempo così faticoso che stiamo vivendo anche dentro la Chiesa. Allora il Signore ci invia dei profeti e credo che don Pietro appartenga a questa schiera di profeti, che in modo originale, intuitivo, spiritualmente fecondo, ha consegnato sé stesso a questo progetto di comunità di famiglie, insieme ad una spiritualità presbiterale che sostiene e si nutre, si alimenta, oltre che ad offrire evidentemente una testimonianza e un aiuto.
Don Pietro si è consumato: una passione che gli ha sottratto piano piano ogni energia e risorsa umana. Perché, vedete, amare significa consumarsi. Ma possiamo dire e lo possiamo dire con verità quanto sono vere le parole di Gesù: «Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24).
Carissimi fratelli e sorelle che siete qui questa sera, di questa fecondità voi oggi siete i testimoni.
[1]Marco 3,14-15: «Ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demòni».