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Donare conforto ai pazienti COVID19 – La parola a Elisabetta e Francesco

Donare conforto ai pazienti COVID19 – La parola a Elisabetta e Francesco

Lei infermiera, lui medico, in questo articolo condividono il loro incontro con la sofferenza ma anche l’apertura alla speranza e alla missione a cui si sentono chiamati

Sono Elisabetta Bonaretti, moglie di Stefano e mamma di tre figli, Gaia, Giuditta e Simone.
Sono infermiera da 20 anni e lavoro in domiciliare, cioè vado a casa delle persone malate e bisognose e cerco di alleviare le loro sofferenze. In questo momento di emergenza sanitaria ho scelto di lavorare tra i pazienti Covid, perché ho sentito che, con il mio lavoro potevo stare accanto a questi pazienti soli e disorientati e dare loro sollievo fisico e spirituale.

Sono le 3.30 di notte. Una parte del mondo è immersa nel sonno. Io veglio. Anche gli uccelli notturni che solitamente cantano le lodi del Signore tacciono. Io veglio sui pazienti Covid, vorrei essere più presente a loro, vorrei passare di stanza in stanza con la pila e vedere se stanno tutti dormendo serenamente, ma non posso. Dobbiamo entrare solo per necessità. Cos’è la necessità? Se uno muore, non è questa la più urgente delle necessità? Ma se non posso entrare nella stanza come posso saperlo? Ci sono pazienti che non sono capaci nemmeno di suonare il campanello, se hanno bisogno devono chiamare o attirare l’attenzione con gesti e versi, ma io sono lontana in guardiola e non li sento. Allora devo passare davanti alle loro porte e cercare di carpire qualche suono o rumore. Ma chi muore fa rumore? Questa situazione in cui ci troviamo è veramente folle! Sono giuste tutte queste precauzioni? Sono eccessive, eccessivamente disumane? Queste misure ci stanno portando a una disumanizzazione? L’uomo è fatto per la relazione, per il con-tatto e tutto ciò ci è privato da regole e regole.

Gesù Risorto ci dice di non temere, perché Lui ha sofferto, ha preso su di sé tutte le nostre fatiche, anche questa del coronavirus era prevista quando era sulla croce.

Questa sera c’è una signora che ha paura di morire, le ho dovuto somministrare un tranquillante perché era da ore che, per un pretesto o per un altro, chiamava e non riusciva a risposare, era tachicardica e dispnoica, non voleva stare sola… Ho provato a fare finta di sgridarla, mi ha chiesto scusa se mi disturbava, mi sono vergognata! In lei non ho visto rancore, ma solo tanta solitudine e timore a vivere il trapasso da sola. Ha più di 90 anni, ha anche lei il diritto di essere accompagnata in questo percorso, da qualcuno che le stia vicino!

Sono convinta che in questo momento il Signore mi chiede, ci chiede un atto pieno di fiducia. Siamo disorientati, afflitti, in alcuni casi soli, ma Gesù Risorto ci dice di non temere, perché Lui ha sofferto, ha preso su di sé tutte le nostre fatiche, anche questa del coronavirus era prevista quando era sulla croce. Solo un abbandono pieno alla sua volontà ci potrà salvare dalla sfiducia che ci sta portando questa situazione drammatica. Gesù ci dice di non temere! Quante volte nelle letture di questi giorni ci invita a non temere! Lo dice a me, ai pazienti che seguo, a ciascuno di noi. Siamo con Lui sul lago di Tiberiade ed è con noi nel silenzio delle stanze di degenza o nelle case in cui dobbiamo inventarci nuovi modi per convivere e stare insieme, ed essere felici, nonostante tutto!

Ora sembra che tutti i pazienti stiano riposando. C’è un grande silenzio e io veglio.

Sono Francesco Greci, frequento il secondo anno della scuola di formazione in medicina generale a Modena. Con queste poche righe vorrei condividere la mia piccola esperienza di giovane medico impegnato in questa emergenza COVID. Mi trovo attualmente in servizio presso il dipartimento di cure primarie di Reggio, dove sono stati istituiti dei servizi per affrontare capillarmente e sul territorio questa emergenza.

Abbiamo attivato alcuni ambulatori dedicati alla valutazione dei pazienti COVID e formato équipes speciali di medici e infermieri per la visita a domicilio di quei pazienti che non vengono ricoverati o per seguirne il decorso clinico post-dimissione. Tutti noi specializzandi delle varie discipline mediche siamo stati chiamati a metterci a disposizione per far fronte a questa emergenza. Giovani, con poca esperienza, tutti abbiamo cercato di dare il nostro contributo: chi nei tanti reparti ospedalieri, chi nei servizi territoriali, molti presso gli uffici di igiene e sanità pubblica, altri nelle sostituzioni dei tanti medici di famiglia malati e purtroppo deceduti per questa pandemia.

Mi sono reso conto che il nostro più grande lavoro, la nostra missione, consiste nel non far sentire nessuno solo, isolato, abbandonato. Questa responsabilità come medici la percepiamo, ce la chiedono i nostri pazienti. Non chiedono cure miracolose ma una vicinanza, un conforto, una persona su cui poter contare nella difficoltà.

Difficile descrivere quello che ho provato in questo periodo. La prima e più forte sensazione è stata certamente la “paura”. Paura di ammalarmi, paura di leggere ogni giorno il nome di nuovi colleghi deceduti o ammalati, paura di una malattia che non conosci e che non capisci. In seguito il senso di paura si è via via ridimensionato grazie alla condivisione, direi alla comunione, con i tanti amici medici che stavano vivendo le mie stesse difficoltà, ed a mia moglie che mi ha sempre incoraggiato e sostenuto. La paura tuttavia rimane latente, soprattutto quando si finisce il turno, quando si ripensa alla giornata appena trascorsa e ai propri pazienti, quando si pensa a come si è fatta la “svestizione”, divenuta ormai un rito pagano entrato nella nostra routine – “dunque: togli i guanti, i calzari, il sovracamice, il secondo paio di guanti, lavati le mani, togli la visiera, gli occhiali, la cuffia, la maschera”. Tutto in ques’ordine preciso, non si accettano errori, perché “è durante la svestizione che ci si contagia”: te lo ripeti e te lo senti ripetere in continuazione.

Durante le mie visite ho sentito la spersonalizzazione che ci impone la nostra “divisa”: non puoi dare la mano, concedere un abbraccio, non puoi mostrare il sorriso. Mi è mancato il contatto “umano” con i pazienti. Non di rado però, fortunatamente, sopraggiunge la speranza, quella che viene dall’aver fatto bene il proprio dovere, ed anche la gioia, quando ricevi un “grazie” o un sorriso dietro la mascherina. Mi sono reso conto che il nostro più grande lavoro, la nostra missione, consiste nel non far sentire nessuno solo, isolato, abbandonato. Questa responsabilità come medici la percepiamo, ce la chiedono i nostri pazienti. Non chiedono cure miracolose ma una vicinanza, un conforto, una persona su cui poter contare nella difficoltà.

Mi ricordo di Olga, una signora anziana. Siamo stati chiamati presso la sua abitazione, ha il COVID, respira affannosamente, è stanca; tutto suggerisce la necessità di un ricovero, ma con un filo di voce Olga sottolinea la sua ferrea volontà di voler morire nel proprio letto. Allora sei chiamato a farti forza, a rispettare la sua volontà. Parli alla figlia della morte, cerchi di fare del tuo meglio per assistere Olga in casa sua, fai appello alla tua (poca) esperienza per accompagnarla nel miglior modo possibile. Ovviamente non ti senti all’altezza del compito, ma devi fare del tuo meglio.

Questo è solo uno dei tantissimi volti che abbiamo incontrato in questo periodo. Ogni medico e infermiere potrebbe raccontare decine di storie come quella di Olga. Questo virus, mai come prima, ci mette davanti la limitatezza dei nostri mezzi, ci rammenta che dobbiamo sempre “prenderci cura”, ma che non sempre riusciremo a far guarire. Ci insegna anche, purtroppo, a fare i conti con la morte come esperienza della vita terrena, anche se sappiamo che tutto non si esaurirà qui.

Tante altre cose vorrei dire, ma devo fare un po’ di ordine anche dentro di me. Questa è solo la mia piccola esperienza. Sinceramente non so cosa ci riservi il futuro; tendenzialmente diffido da chi propone soluzioni semplici a problemi complessi come questo. Noi medici continueremo a lavorare, ad acquisire competenze per migliorarci sempre di più. Ci sforzeremo di sorridere dietro la mascherina.

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