Anniversario della morte di Umberto Roversi
In questo tempo la liturgia ci invita alla lode, alla gioia, alla festa: la festa della fede. In particolare, questa sera siamo messi di fronte a due quadri che in realtà sono quasi contemporanei: sono probabilmente racconti di episodi avvenuti a poca distanza di tempo l’uno dall’altro.
Il racconto della guarigione – attraverso Pietro e Giovanni – di quel mendicante, paralitico, ci allarga il cuore, ci fa comprendere la potenza della fede e il dono pasquale che è affidato agli apostoli. E tuttavia questa speranza rischia di ferirci profondamente. Tanto più sono grandi i doni che il Signore ci fa, tanto più sono belle le persone che onorano la nostra vita e tanto più diventiamo vulnerabili, sensibili a ogni ferita e soprattutto alla mancanza.
Vorrei entrare nella lettura di queste parole attraverso una condivisione personale, una personale testimonianza che confido possa essere utile anche a qualcun altro. Non è facile trovarsi di fronte a questa parola quando anche tu hai pregato. Le ultime parole che ci siamo scambiati per iscritto con Umberto pochi giorni prima della sua morte, mentre gli mandavo la fotografia della Messa che stavo per celebrare insieme a Papa Francesco con i missionari della misericordia, sono state: “Ti ricordo nella messa con il Papa”. E lui ha risposto: “Grazie, ne ho tanto bisogno”.
Dunque, il Signore non ascolta sempre? Dipende semplicemente dalla nostra santità o dalla potenza della fede? Quanto alla prima: lo sa Dio; quanto alla seconda: ce l’abbiamo messa tutta. Perché non sempre il Signore sembra ascoltare?
“Tu solo non conosci questi fatti?”, “Tu solo non capisci ciò che avviene nel nostro cuore?”, chiedono a quello straniero che si accosta a loro; per loro era straniero, al punto che lo ritengono incapace di comprendere ciò che tutti sanno. “Le nostre donne ci hanno sconvolti, ma lui non lo hanno visto”: così i discepoli di Emmaus.
E viene dunque da chiedersi: Pietro allora era capace di guarire tutti quelli che sapeva malati? È un rischio guarire qualcuno… certo; vorremmo piuttosto dire: è un segno. Nemmeno Gesù ha cancellato il travaglio di chi cammina, ancora, in una certa oscurità.
Che cosa allora conta? Che cosa vale? Gli amici parlando di questa giornata hanno voluto ricordare alcune espressioni di Umberto, che è stato davvero un amico e più che un amico. In particolare, questa: “In certi momenti della vita, quando ti viene tolto un po’ tutto, che cosa ti rimane alla fine? Ti rimane la vocazione, come l’ho accolta e compresa, come le ho corrisposto nel dono della mia vita.” E allora sembra che queste parole ci introducano con riconoscenza in quella espressione forte di Gesù: “Tardi di cuore nell’accogliere le parole dei profeti! Non sapevate che il Figlio dell’Uomo doveva soffrire molto?”
Nessuno è risparmiato, nemmeno Gesù, rispetto alla fatica di quel passaggio. Ma sarebbe veramente qualcosa di inaccettabile, insopportabile, inutile se Lui non ne avesse colto il senso, Gesù coglie il senso della Sua prova, mentre molti non ci erano riusciti (nella loro). La dimensione terribile e – appunto – insopportabile della sofferenza è quando questa non ha un senso, quando non la comprendiamo dentro una Provvidenza, cioè dentro un cuore che conosce, che compatisce, che sa riscattare e valorizzare tutto, soprattutto ciò che è offerto con cuore innocente. Ecco perché, se c’è qualche cosa che ci lascia molto sereni, edificati, anzi costantemente rigenerati pensando a quanti ci hanno preceduto nel segno di questa testimonianza, è proprio questo: hanno fatto la volontà di Dio, così come l’hanno compresa fino in fondo accogliendola nella fiducia, pur se in quel momento non sembrava offerta una risposta alla speranza di vita. Oggi questa diventa la nostra certezza: che il Signore ha raccolto quella domanda e ha risposto con una sovrabbondanza di vita, in una presenza che per noi che crediamo è la consolazione più grande. Li sappiamo e li sentiamo davvero presenti in ogni momento.
Ed è qui che tornano le espressioni che, di nuovo, oggi ci sono offerte: “Mi pare ci sia una sola strada possibile da percorrere e che don Pietro ci ha indicato in ogni suo agire: farsi prossimi… Abbiamo bisogno di prossimità, di autentica vicinanza. In abbondanza”. La nostra mendicanza dunque non è disperazione, ma è umiltà. Sappiamo di aver bisogno di questo e intuiamo che dono è poter offrire la nostra vicinanza.
Oggi in particolare è evidente che – costretti dalle circostanze – i segni di vicinanza sono particolarmente preziosi e, devo dire, spesso anche molto apprezzati. E ciò che possiamo fare è riempire questo momento di carità.
Vorrei concludere ritornando all’episodio di partenza. Che segno è la guarigione di quel mendicante paralitico? Mi piace oggi vederla in questo senso. Pietro dice “non ho ne oro ne argento ma quello che ho te lo do: Alzati”. Mi sembra che possa significare: non voglio che tu ti limiti a mendicare, voglio che cammini e testimoni con noi l’amore di Dio.
Così anche noi non vogliamo fermarci ripiegati sulla nostra fatica, sul nostro bisogno: mi pare di accogliere una voce dall’alto che ci dice “Alzati e testimonia l’amore che hai toccato con mano”.