Omelia XXVI Domenica del Tempo Ordinario, 29-09-2019, don Benedetto Usai
Commento per la Gazzetta di Reggio
Qual è l’immagine di uomo che raccogliamo da questo Vangelo?
C’è il ricco epulone, una persona sazia, indifferente e cinica, ingombrante e chiassosa; c’è il povero Lazzaro che al contrario e’ affamato, ferito e mendicante, umile e silenzioso. Oltre all’opposta condizione materiale di ciascuno, ci sono alcune differenze sottintese nella vicenda raccontata, che emergono via via fino a diventare evidenti a noi che ascoltiamo e guardiamo.
La speranza: posso vivere senza? Il ricco non ne ha più, perché è come se avesse raggiunto tutto quello a cui aspirava e vive le sue giornate ‘banchettando lautamente’. Lazzaro è talmente provato dalla sua mancanza, che spende la sua vita per alimentarla, al punto da accontentarsi anche delle briciole che cadono dal tavolo di ogni banchetto.
‘Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia. Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? (Lc 12,19-20)
La speranza sta al cuore di ogni uomo, come il tempo che ci è dato da vivere sta alla sua piena realizzazione. Mi realizzo nel tempo se lo circoscrivo in una sazietà senza limiti, cioè lo uso per sedermi, dimenticandomi di essere un uomo che ha delle domande che vanno oltre, oppure affronto la vita aspettandomi di essere raggiunto da briciole di eternità, che colmano le mia giornate di un sapore profondo che danno un significato al presente in cui sono? In che modo? Cambiando lo sguardo su di me e sul tempo che vivo, sul creato e le persone che lo abitano, su chi è nella gioia e su chi vive nella sofferenza, non affossando la mia speranza in me stesso, ma imparando dalla vita che mi è donata a rimanere fuori da me per ritrovarmi in un incontro che mi genera. Ad esempio: in questo periodo guardo ai campi dissodati in attesa di essere coltivati, non possono parlare, ma in modo tacito invocano qualcuno che li faccia crescere. Sono freddo, distante, inavvicinabile, perché sono fin troppo concentrato su di me, e non permetto a niente e a nessuno di incrociare la mia strada: tanto meno al Signore, che rimane un bel soprammobile, da spolverare ogni tanto per far tacere la coscienza.
L’umiltà: potremmo arrivare a pensare, immaginandoci dentro alla scena descritta, che non è poi così infrequente, che il povero Lazzaro non poteva che comportarsi così. Ma come facciamo ad essere così superficiali? Noi non lo conosciamo, lo vediamo povero e ferito sotto la mensa del ricco, ma della sua vita cosa sappiamo? Constatiamo che nessuno si cura di lui, perché è stato estromesso da ogni relazione sociale, ma nella sua povertà poteva essere la salvezza del ricco. ‘No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: ‘Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti’. Gesù ci salva con la sua povertà, sceglie di farsi bisognoso per suscitare la nostra compassione e offrire a ciascuno la grazia di educare il cuore ad essere quello che è. Non lamentiamoci delle nostre fatiche, sconfitte o sofferenze, cambiamo lo sguardo su di esse: possono essere la via sapiente che Gesù sceglie per la nostra salvezza.