Quaresima 2023 con don Pietro Margini

E il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà

“Con la quaresima il Signore ci dà una grande grazia, un tempo favorevole, un giorno di salvezza, ci dà una grazia speciale di conversione e di purificazione”.

La quaresima insieme, giorno per giorno, accompagnati dalle parole di don Pietro Margini.

Gl 2,12-18; 2Cor 5,20-6,2; Mt 6,1- 6.16-18

Il Padre tuo ti ricompenserà”. Cominciamo la quaresima con un profondo senso di fede.

Con la quaresima il Signore ci dà una grande grazia, un tempo favorevole, un giorno di salvezza, ci dà una grazia speciale di conversione e di purificazione. Sia quindi per noi un impegno profondo e forte. Saremmo superficiali e forse anche potremmo diventare falsi, a cominciare e a non proseguire, a cominciare un’opera tanto grande in uno stato di animo di leggerezza e di superficialità.

Stiamo attenti, le grazie di Dio vanno ricevute con tutto l’entusiasmo e con tutto il cuore. Stiamo attenti. Non sciupiamo neanche una particella, un frammento di questa grazia. Stiamo attenti e sentiamo che veramente è dono di Dio che va accolto con gioia. La penitenza non può essere un’opera che ci rende malinconici, che ci rende tristi. La quaresima non è tempo di tristezza, è tempo di purificazione, di liberazione, è tempo nel quale trovando meglio, in Dio, noi stessi, ci sentiamo consolati e sereni.

Il Signore ce l’ha detto: non assumete l’aria malinconica, assumete in profondità uno spirito di vera gioia, di una vera gioia perché sentiamo che, man mano ci avviciniamo a Dio, riusciamo a capire meglio gli altri e a capire meglio le cose. Diventa allora motivo vero di crescita, motivo vero di gioia. Impegniamoci proprio così, con questo spirito, nella vera penitenza. Siamo peccatori, tutti, e tutti abbiamo bisogno di penitenza. Prima di tutto accogliamo la penitenza che permette a noi il buon Dio, le cose contrarie, le cose faticose, il nostro dovere fatto bene. Accogliamo quello che ci manda il Buon Dio, guardando sempre la realtà con molta fede, non lamentiamoci delle cose contrarie, ma sappiamole rendere motivo per la nostra crescita spirituale.

Poi prendiamo anche noi l’iniziativa di una penitenza, particolarmente che ci curi dove siamo più deboli, dove con facilità veniamo a commettere dei peccati. Ci sono delle penitenze spirituali e ci sono delle penitenze fisiche: sappiamo prenderle e chi si sente debole come soggetto alla tentazione della pigrizia, faccia una penitenza adeguata, per diventare attivo, pronto, generoso al richiamo della grazia. E chi è superbo, prenda la penitenza dell’umiltà, del servizio, del saper tacere, del saper essere più compreso delle proprie responsabilità e dei propri difetti. Chi è facile all’impazienza e chi è facile all’ira.

Ecco ad ogni nostro difetto una penitenza rimedio, perché possiamo così sviluppare in noi la vera ascesi cristiana, la vera salita di perfezione e, trovandoci tutte le sere nella grazia dell’Eucarestia, tutte le sere comunicheremo in una comunione grande con Gesù e avremo i Suoi sentimenti, le Sue scelte. Così gusteremo quanto è soave e proveremo quanto è forte questo Pane. Particolarmente sviluppiamo il nostro senso di preghiera, perché la preghiera non può essere sempre una preghiera esteriore distratta e svogliata, ma deve, insieme a Gesù, crescere e diventare una preghiera piena e matura.

Questa quaresima ha per noi tanta importanza. Ci prepariamo al Congresso Eucaristico, ci prepariamo all’Anno Santo della Redenzione, ci prepariamo a una più intensa missionarietà parrocchiale. Dobbiamo diventare tutti missionari per portare la parola del Signore agli altri, preoccupati che gli altri non abbiano la nostra gioia e la nostra ricchezza, per distribuire a tutti serenamente quanto il Signore, nella Sua misericordia, ha posto per gli altri nelle nostre anime.

Dt 30,15-20; Lc 9,22-25

Lo scopo grande della quaresima è quello di farci vivere il nostro battesimo. Con il battesimo siamo stati uniti a Gesù nella morte per partecipare della Sua resurrezione.

Il cristiano deve sempre pensare che il mistero di Gesù è il mistero che deve verificarsi anche in lui. Il distacco dal peccato, la morte al peccato e il vivere sempre da figli di Dio.

Ecco che dobbiamo a lungo meditare le parole di Gesù: “Chi vuol venire dietro di me, rinneghi sé stesso”. Il rinnegare quella parte in noi che è della terra, che è suddita del male, il vincerci, il trionfare. È molto triste quando consideriamo come è facile che siamo schiavi della terra, è tanto facile e tanto preoccupante perché è quell’ostacolo che resta sempre e ci impedisce la vera vita cristiana. Ecco perché nella quaresima, giustamente, dobbiamo pensare alla vanità delle cose di questa terra: come sono effimere, come passano! La considerazione si approfondisce se riflettiamo sulla nostra morte, su quella morte fisica che ci distaccherà da tutto, da tutti i beni, da tutte le persone; che ci distaccherà, quando meno ci aspettiamo; che la nostra morte può avvenire in qualunque momento, in qualunque luogo; che la nostra morte ci può trovare, se non stiamo attenti, in una situazione di peccato, o di superficialità, o di disinteresse.

Quando pensiamo che la morte colpisce tutti e del corpo dell’uomo non resta che un po’ di cenere, un pugno di cenere. È tutto lì, quello che poteva essere l’orgoglio e la passione: un pugno di cenere. Lo abbiamo ricordato ieri sera. È bene che facciamo una seria riflessione su quelle cose che ci tengono ancora troppo legati, troppo fermi, troppo resistenti alle sollecitazioni della grazia di Dio. Quanto dobbiamo pensare all’eternità, perché vale solo quello che è eterno; quello che passa, quello che fugge, non vale la nostra attenzione, il nostro cuore.

“Dov’è il tuo tesoro, ivi è il tuo cuore”. Ricordiamo queste parole di Gesù, viviamo cercando il bene e vivendo della vita del Signore. Dio si compiacerà di noi e potremo così camminare in uno splendore di grazia che ci dia la gioia del tempo e la gloria dell’eternità.

Is 58,1-9; Mt 9,14-15

Allora digiuneranno”. Dobbiamo sentire forte l’invito alla penitenza. Dobbiamo sentirlo, questo invito, che non è un invito alla tristezza, al cupismo, al pessimismo: è l’invito alla gioia, perché è l’invito a comunicare più profondamente, più intimamente con Gesù, lo sposo della Chiesa.

Dobbiamo avere sempre davanti questa visione. Giusto il fare penitenza, ma il fare penitenza non bisogna considerarlo qualche cosa di pesante e di oscuro, ma come un mezzo per poter stare più uniti a Gesù, un mezzo per liberarci dall’onere delle nostre colpe e dai condizionamenti delle nostre passioni.

In questi giorni dobbiamo sentire come siamo creature. Cosa vuole dire essere creature? Vuol dire: noi siamo dei creati da Dio e tutto quello che abbiamo, lo abbiamo da Dio, di nostro non abbiamo nulla. Dobbiamo sentire come le cose più semplici, ci chiamano a questo senso della creaturalità, che siamo Suoi, perché Lui ci ha fatto, perché Lui ci mantiene nell’esistenza e nella vita, perché Lui ci dà l’ossigeno per i nostri polmoni e il cibo per sostentarci, perché Lui ci dà la grazia di poter pensare e di poter amare, perché dal Suo cuore c’è la compassione per i nostri peccati.

Dobbiamo sentire sempre di più come il peccato ci distacca da Dio, come il peccato è una follia se ci fa andare contro Dio, se ci fa andare contro i suoi supremi diritti, perché Dio ha il dominio su di noi, un dominio totale, un dominio che sarà di sempre, che sarà di questo tempo, che sarà dell’eternità, che noi, essendo Suoi, vivendo solo del Suo dono, dobbiamo assolutamente, per la nostra felicità, fare quello che Lui vuole, quello che Lui dispone per noi, sapendo bene che lo fa nella Sua infinita sapienza e nel Suo ineguagliabile amore.

Abbandonarci dunque a Dio nell’amore, riconoscendo i Suoi supremi attributi, riconoscendo quanto gli dobbiamo, perché dobbiamo sempre di più acquistare lo spirito di penitenza, cioè il dolore vero delle pazzie che abbiamo fatto peccando, dobbiamo acquistare sempre di più con chiarezza quale deve essere la nostra posizione in avvenire: servire Dio, siamo al mondo solo per questo: amare, conoscere, servire Dio.

Is 58,9-14; Lc 5,27-32

“Seguimi”.

Ogni cristiano è chiamato con forza e con abbondanza straordinaria di mezzi, a seguire il Signore. Già Dio Creatore aveva fatto l’uomo dandogli un fine supremo. L’uomo non è fatto per delle cose, l’uomo è fatto per l’infinito. Le cose di questa terra non lo possono accontentare e saziare, le cose di questa terra sono, in ultima analisi, solo un’illusione: tutto passa.

Dio, creando l’uomo, ha voluto dargli il fine più alto, ha voluto essere Lui la sua suprema beatitudine. Ed ecco che Gesù, che è venuto a restaurare questo stato che gli uomini avevano rotto con il peccato, chiama i peccatori, anche i peccatori, non semplicemente gli uomini che sono riusciti a tenere una vita santa, tutti, anche i peccatori. Vivendo con Gesù ne partecipiamo allora alla forza, alla grazia, a una vivacità straordinaria di vita. Noi partecipiamo in Gesù della Sua verità. Magnifiche verità ci ha detto Gesù, bellissime, consolanti. Noi partecipiamo alla Sua beatitudine e infatti il codice che il Signore ci ha dato è il codice delle beatitudini, per cui l’uomo è beato, anche su questa terra, se osserva con amore la legge di Dio e le disgrazie, i dispiaceri, i dolori, non sono sufficienti a fargli perdere la vera pace del cuore, se corrisponde alla grazia dello Spirito Santo.

Poi Gesù ci chiama ancora alla Sua missione, alla Sua redenzione, a parteciparvi, perché anche noi dobbiamo portare la parola, dobbiamo portare il messaggio evangelico, dobbiamo essere perfettamente intonati a quella che è stata la vita apostolica di Gesù.

Sentiamo allora questa sera quanto siamo sollecitati. Seguire Gesù, tendere alle cose divine, guardare Dio nostra somma felicità, nostra gioia intramontabile e impariamo, non solo ad abbandonare il peccato, non solo a superare le nostre difettosità, ma a superare la miseria di queste cose terrene, a non fare troppo conto di quello che passa, ma impegnandoci a compiere sempre la volontà di Dio perché è in questo modo che ci fissiamo per l’eternità.

Gn 2, 7-9; 3, 1-7; Rm 5, 12-19; Mt 4, 1-11

La Liturgia oggi ci presenta il terribile dramma dell’umanità, dell’umanità che ha creduto al tentatore ed è caduta e, a causa del peccato di un solo uomo, è entrata nel mondo, col peccato, la morte e la morte ha raggiunto tutti gli uomini. Un dramma di tentazione, cui l’uomo soggiace.

E poi l’altra pagina meravigliosa di come Gesù ci presenta il vincere contro la tentazione, per cui siamo posti così: o seguire Adamo o seguire Gesù.

Vi sono alcuni che preferirebbero porsi in disparte, non vorrebbero il dramma, vorrebbero che la vita fosse una cosa piana e facile, qualche cosa tra il quieto e il sonnacchioso. Non è così, o si perde con Adamo, o si vince con Cristo. Ogni uomo è soggetto alla tentazione e la vita è una prova, una prova che ha come risultato, lo vediamo, la morte o la vita in Cristo, la morte e la miseria di Adamo, la vittoria della risurrezione in Cristo.

La Quaresima allora ci sensibilizza e ci dice: affronta la vita com’è, affronta la vita che è una prova, non si può declinare dalla lotta, o perdi o vinci.

Ti è necessario valutare bene quello che fai, perché quello che fai diventa giorno per giorno decisivo, diventa una cosa che tu demolisci o una cosa di costruzione mirabile.

Capire allora il senso dell’esistenza è riuscire a orientare tutta la nostra vita, a orientarla giustamente, perché Adamo ha perduto illuso, illuso di diventare come Dio, illuso di accrescere la sua felicità.

E anche a noi si presenta sempre la stessa illusione: essere liberi, essere autonomi, essere più felici, essere così padroni di tutto. È un’illusione, che anche a noi si presenta sotto tante diverse forme, ma il peccato entra attraverso l’illusione, il peccato si mimetizza secondo il nostro ambiente e secondo le nostre disposizioni; ma il peccato, che si presenta con una faccia, con una maschera di gioia, essenzialmente è morte, è rovina, è disastro! Ogni qual volta camminiamo con il peccato, camminiamo verso l’infelicità. Ogni volta invece che superiamo la nostra miseria istintiva, che superiamo questa sete di piaceri sensibili e ci convertiamo a Cristo, adottiamo lui, ci rivestiamo di lui, andiamo verso la felicità sicuramente, pienamente andiamo verso la felicità.

E allora vincere le nostre tentazioni, vincerle come ce ne ha dato esempio Gesù, aderendo alla Parola di Dio. Gesù risponde a satana, richiamandosi a quella Parola così, contenuta nella Bibbia, così come indicava la volontà di Dio del suo messianesimo, un messianesimo di sofferenza, un messianesimo di tribolazione, non un messianesimo facile, un messianesimo di trionfi, di prodigi, di cose che avrebbero meravigliato e basta.

Il Signore oppone alla tentazione la sua incrollabile adesione alla volontà del Padre. E per noi vincere la tentazione sta esattamente qui, sta nel richiamarci alla vera realtà, che è la realtà che Dio ci manifesta ogni giorno attraverso la Parola della Scrittura, la realtà del nostro essere figli di Dio e di volerci attuare come figli di Dio e di volere, così, coinvolgere tutti in questa esperienza meravigliosa di fede, che conduce alla resurrezione.

Il nostro proposito allora sarà rivedere con esattezza le nostre posizioni: se molte volte siamo presi dall’illusione, se molte volte scendiamo a patti con le tentazioni, non crediamo del tutto alla Parola di Dio, se con facilità ci adagiamo a compromessi, se cerchiamo qualche cosa che rallegri le nostre giornate di una luce che non è la luce di Cristo, di una cosa che sembra bella e attraente, ma in realtà è solo egoismo, è solo superbia, è solo sensualità.

Aderiamo allora al Signore con rinnovata volontà.

La Quaresima è un seguirlo da vicino, per essere trasfigurati in lui nella gloria della sua esperienza di Figlio di Dio fatto Signore, di Lui Figlio di Dio, che nella risurrezione è proclamato il vittorioso, colui che ha saputo soggiogare tutto e condurre tutto al Padre.

Lv 19,1-2. 11-18; Mt 25,31-46

Il Signore è Padre nostro, è padre di tutti gli uomini e vuole la salvezza di tutti. Non è possibile che Dio allontani da Lui gli uomini che ha creato. Li vuole vicino a Lui e vuole che noi siamo ben solidali tra di noi, di una solidarietà fatta proprio di spirito soprannaturale. Noi siamo Sue creature e siamo Suoi figli. Dobbiamo guardare negli altri la Sua immagine. Noi dobbiamo vedere in ognuno il Signore Gesù. Ecco è qui che dobbiamo riflettere, perché il nostro egoismo e il nostro orgoglio ci danno delle immagini deformate. Negli altri uomini noi dobbiamo vedere Gesù, Gesù particolarmente nei fratelli che sono bisognosi e nell’affamato dobbiamo vedere Gesù che ha fame e nell’assetato Gesù che ha sete.

Ecco quindi che dobbiamo alzare gli occhi e vedere al di là delle apparenze, vedere che gli uomini ci rappresentano Dio creatore e ci rappresentano Gesù redentore, perché per ogni uomo Lui ha dato il Suo sangue. Ogni anima costa il sangue del Signore, ogni anima, quindi, è preziosa. Per ogni anima noi dobbiamo fare tutto quello che sta in noi: ogni anima dobbiamo saperla onorare come onoriamo Gesù, servirla come serviremmo Gesù.

Dobbiamo allora vedere che il tempo di quaresima sarebbe veramente rovinato, se lo limitassimo a degli atti di devozione. Insieme agli atti di devozione, dobbiamo fare tanta bontà, tanta carità, tanto dono. Dobbiamo effonderci verso gli altri perché è in questo che testimoniamo il nostro vero amore al Signore.

Guardiamo allora se la nostra bontà ha le caratteristiche dovute, la nostra carità deve essere soprannaturale. Non dobbiamo vedere solo l’apparenza, dobbiamo vedere la realtà profonda e in ogni anima la realtà profonda è la presenza del Signore Gesù.

La nostra carità deve essere generosa, non si deve limitare a dei gesti, così, esteriori, quasi per liberarci da un peso. Bisogna che la carità sia veramente autentica, cerchi il vero bene.

La nostra carità deve essere, ancora, pronta, perché la prontezza denota vivacità di amore, deve essere totale, perché deve andare incontro a tutti i bisogni del nostro prossimo che possiamo sollevare.

La nostra carità dev’essere lieta, perché servendo il Signore facciamo la cosa più bella e più utile: quella che ci porterà il favore del giudizio e la vita eterna.

La nostra carità deve essere paziente perché deve considerare il prossimo nella sua vera identità. Deve essere una carità che serve, non pretendendo nessuna mercede terrena. Una carità disinteressata che si effonde secondo il precetto evangelico: non fare del bene a chi ti è riconoscente, perché la tua ricompensa te la devi aspettare dal Padre celeste.

Riempirci di carità. Sentire che la vera paternità di Dio noi la dobbiamo riconoscere in questo amore che Dio ha per tutti gli uomini. Ogni giorno maggiore carità, maggior umiltà, maggiore pazienza, cominciando all’interno della famiglia, a tutti quelli che avviciniamo. Carità. Molta carità, molta pazienza, molta benignità, perché così, veramente faremo l’opera principale della quaresima che è questa solidarietà, è questa generosità verso gli altri, che gradisce tanto il cuore di Gesù.

Is 55,10-11; Mt 6,7-15

“Su questa pietra edificherò la mia Chiesa”. Oggi è la festa della cattedra di San Pietro a Roma, cioè ringraziamo ancora Dio per l’episcopato di Pietro a Roma, per il governo che iniziò di tutta la Chiesa. È per noi un motivo di gioia ed è la gioia più grande perché è la sicurezza. Il Signore, fondando la Chiesa su Pietro, l’ha voluta rendere stabile, vittoriosa degli innumerevoli nemici che, in ogni età, avrebbe avuto. Ha voluto che la Chiesa fosse così unita, su una persona, la persona del papa; fosse unita perché, attraverso il papa, noi sentissimo la presenza viva e perenne di Gesù, quella presenza che dice un amore incredibile di Gesù per la Chiesa, un amore continuato, un amore vigilante, un amore di predilezione perché nella Chiesa ha voluto effondere i tesori da Lui acquistati nel suo mistero pasquale, perché nella Chiesa ha voluto continuare la Sua vita. Gesù vive nella Chiesa, agisce nella Chiesa. È per questo che la Chiesa è la luce di tutti i popoli e sempre la sua missione sarà espletata fino alla consumazione dei secoli. La Chiesa Corpo di Cristo.

Noi sappiamo bene che dobbiamo realizzare la nostra vocazione nella Chiesa, ascoltando la Chiesa e ubbidendo alla Chiesa. Ascoltando la Chiesa, con umiltà, in spirito di fede, con sempre grande fiducia e dobbiamo agire secondo quello che il Signore esige da noi, perché vuole che noi diamo e vuole che noi riceviamo, perché ognuno nella Chiesa ha il suo carisma e deve comunicarlo ai fratelli e ognuno deve saper prendere dagli altri membri della Chiesa quello che lo Spirito Santo ha preparato.

Vivere la Chiesa è quindi vivere un mistero di amore, quel mistero per cui Gesù ha donato a tutti i battezzati lo Spirito Santo, quel mistero d’amore per cui lo Spirito Santo lega tutti i membri al Capo Gesù e realizza tra tutti i membri una comunione mirabile.

Vivere la Chiesa. Non avere paura di essere i fedeli esecutori delle volontà della Chiesa, di essere i primi a difenderla ed amarla. Stringerci attorno al nostro papa e condividere le sue ansie e le sue preoccupazioni per tutto quanto il mondo. Sentire come ogni cristiano deve avere l’eco di tutto quello che si svolge nel mondo e che interessa e tocca la Chiesa. E alla Chiesa è affidato l’universo, perché la Chiesa non è per se stessa, è per il mondo, è per la salvezza del mondo, è per l’universale evangelizzazione, perché tutti gli uomini trovino in Dio, loro creatore, il punto di coesione e di concordia.

Quanto dobbiamo essere preoccupati di non essere nella Chiesa dei membri inutili, dei parassiti.

Ecco i nostri doveri: pregare per la Chiesa, sentire con la Chiesa, obbedire alla Chiesa. Ognuno di noi voglia essere fervidamente attivo, pronto a donare quanto nel cuore gli ha messo la Grazia di Dio.

Donare molto, donare sempre, donare con fede, donare soprattutto nella carità operosa e fervida e così nella misericordia di Dio ci sentiremo ben uniti e, facendo la nostra comunità parrocchiale, vorremo non chiuderci nei nostri problemi, ma respirare, insieme con il sommo pontefice, del respiro più amplio e più grande che è il respiro ecumenico per tutta la Chiesa.

Gio 3,1-10; Lc 11,29-32

La liturgia parla con insistenza della conversione. “Ritornate a me con tutto il cuore” dice il Signore.

Cosa vuol dire convertirsi? Vuol dire riconoscere i diritti supremi di Dio, la Sua infinita bontà che ci chiama e ci dà il mezzo per ritornare, per vivere cioè secondo il modello stesso che il Padre ci ha dato. “Questo – lo ha detto al battesimo, lo ripeterà nella trasfigurazione – questo è il mio Figlio diletto. Ascoltatelo”.

Abbiamo bisogno di modellare la nostra vita su quella di Gesù. La nostra vita deve essere simile a quella del Signore ed è restato continuamente nell’Eucarestia per essere un modello sempre sotto gli occhi, per essere il sostegno ad attuare questa conversione quotidiana.

Ecco quindi che noi ci dobbiamo sentire fortemente impegnati, sapendo che solo così possiamo rendere la nostra vita utile, solo così possiamo rendere la nostra vita bella e feconda di frutti. Perché troppo spesso dimentichiamo che il convertirci è la condizione per la nostra salvezza eterna. Salvare l’anima. Come dobbiamo ripeterci le parole di Gesù: “Che cosa conta all’uomo guadagnare anche tutto il mondo, se poi perde la sua anima?”. Dobbiamo ripetercele perché altrimenti siamo presi dalle vicissitudini di questo mondo, dalle nostre occupazioni, da tutto il frastuono che c’è nel mondo e poi che cosa conta, se non salviamo l’anima nostra? Noi dobbiamo tornare a Dio e fare la Sua volontà e farla come l’ha fatta Gesù.

Oh, come è bella allora l’esistenza, pur nella gioia o nel dolore, quando è modellata così su quel modello divino che è piaciuto fino in fondo al Padre! La nostra vita piacerà al Padre se avrà i segni che ha avuto quella di Gesù, se la nostra fisionomia spirituale almeno un pochino si assomiglierà alla fisionomia di Gesù.

Noi questa sera chiediamo al Signore, come inibiti, chiediamo al Signore lo spazio della penitenza, la voglia della conversione, l’impegno di questa conversione e sappiamo ognuno che cosa ci chiede il Signore per allontanare i pericoli dalla nostra anima, per costruire quei veri lineamenti di virtù che è tanto tempo che il Signore sollecita.

La nostra riflessione dia luogo perciò ad una forte decisiva posizione: darci a Dio, darci a Dio con tutta l’anima, vivere la nostra conversione nella preghiera, nella bontà, nella carità, nel servizio, dovunque la coscienza ci avverte, dovunque la grazia di Dio ci richiama.

Est 14,1.3-5. 12-14; Mt 7,7-12

Il Signore Gesù insiste perché noi ci mettiamo a pregare e ci mettiamo a pregare con confidenza, con sicurezza, con semplicità, come un figlio con semplicità chiede le cose al padre. Questa raccomandazione di Gesù è di una importanza enorme e noi non possiamo non prenderla come uno degli obblighi più importanti e più fecondi del nostro vivere. Bisogna pregare, bisogna imparare a pregare, bisogna vivere in una vera unione con Dio. Perché pregare è unirci a Lui, è accogliere la Sua iniziativa, è corrispondere al Suo amore. Lo sappiamo bene, chi alla preghiera dà il peso di una formalità, non ha ancora incontrato il vero pregare, chi nella preghiera mette solo sé stesso, non si incontra davvero con il Signore. Bisogna essere con l’anima spalancata, bisogna essere talmente pronti che il Signore possa agire in noi e fare di noi ciò che vuole.

Pregare è fare la Sua volontà, non è volere condurre Lui a fare la nostra. Pregare è aprirci a tutto quell’amore che ha progetti meravigliosi sulla nostra vita. Pregare vuol dire sapere giorno per giorno, cercare il Suo volto. Ecco, come dice il salmo: “Signore, io cerco la luce del Tuo volto”.

Questo tempo della Quaresima è privilegiato in fatto di preghiera. Noi dobbiamo compiere un massimo sforzo per mettere la vera preghiera, per sapere tenere i tempi e gli spazi per la preghiera.

Questa Quaresima dobbiamo fare dei propositi ben particolari, perché ci sia un vero progresso. Ascolta quindi la parola del Signore. Misura quello che hai fatto, senti quello che ti resta da fare. Può essere contento il Signore di una preghiera distratta, di una preghiera svogliata, di una preghiera che si affronta come un peso da dover compiere, che non si ama? Può essere contento il Signore di una preghiera fatta in fretta, fatta nei momenti meno opportuni, quando più si è stanchi, quando si è messa nel cuore una moltitudine di altre cose?

Riformare la preghiera. Dare alla preghiera il vero significato, il vero slancio perché “non di solo pane vive l’uomo”.

Dobbiamo vivere così, nella comunione di Lui, della Sua parola, della Sua meravigliosa comunicazione di amore, perché, quando il Signore ci vede disposti, pone in noi le meraviglie della Sua carità.

Ez 18,21-28; Mt 5,20-26

Siamo invitati questa sera ad esaminare bene la nostra carità, perché, se non sarà diversa dagli scribi e dai farisei, non potremo entrare nel Regno dei cieli. Gli scribi e i farisei si ritenevano delle persone corrette, religiosamente valide, eppure il Signore li ha condannati e non è difficile anche per noi accontentarci di qualche cosa di esteriore e di formale, accontentarci di salvare la faccia e di essere così onorati dagli altri.

Il Signore ci richiama al cuore e dice che la nostra santità e la nostra carità verso il prossimo, devono essere una scelta di cuore, una atmosfera del nostro cuore, che noi dobbiamo amare in verità. I motivi del nostro amore, noi li sappiamo, il Signore ce li ha presentati con forza: tutti voi siete fratelli, perché tutti avete un unico Padre. Tutti siete creature e l’uno nell’altro deve vedere l’immagine del suo Signore. E Gesù ha aggiunto: “Amatevi come io vi ho amato”. Amatevi vedendo negli altri la mia immagine: “Ogni qualvolta fai qualche cosa al tuo fratello, la fai a me”. E ci ha detto allora che dobbiamo cominciare proprio dal di dentro, dal pensiero, giudicando bene gli altri; dal cuore, amandoli indipendentemente dai loro meriti e, quando si è posto così un cuore aperto all’amore, le parole, i gesti, le scelte devono essere tutte in un ordine di carità, devono essere tutti in un senso di profondo equilibrio.

Noi non cesseremo di migliorare la nostra carità. È il mezzo per piacere a Dio, è il mezzo per ottenere da Lui le grazie più grandi, è il mezzo per assicurare la nostra salvezza eterna. Noi dobbiamo quindi un amore agli altri soprannaturale, un amore dunque che parte da Dio e vuole dare gloria a Dio. Deve essere un amore completo e generoso, venendo in aiuto alle vere necessità del prossimo. Deve essere un amore che si volge a tutti. Il Signore ha detto che non possiamo neanche escludere un nemico, se lo avessimo, ma dovremmo circondarlo di tutta la nostra carità, di tutto il nostro perdono. Migliorare la nostra carità, con la pazienza, la pazienza di ogni giorno, il sapere che gli altri devono sopportare i nostri difetti, deve essere un motivo per combattere questi difetti, combattere le nostre pretese e le nostre esigenze irragionevoli. Sapere che la carità si esprime nel servizio e vivere insieme è servire. La carità quindi deve avere il suo regno in famiglia e si deve estendere a tutti quelli che trattano con noi. Umiltà, pazienza, generosità, comprensione, perdono. Sono questi i motivi della nostra riflessione, le suppliche che presentiamo al Padre.

Dt 26,16-19; Mt 5,43-48

Il Signore ci esorta, ci spinge, il Signore non cessa di stimolarci. Noi dobbiamo abbracciare la Sua parola, perché sono “beati coloro che custodiscono la parola di Dio”, e vincere il nostro brutto, antipatico difetto di tendere al compromesso. Il Signore ci dice di custodire ed accogliere la parola, ci dice che con semplicità, con umiltà e con totalità, dobbiamo tradurre questa parola. La nostra tendenza al compromesso nasce dal volere accontentare anche la parte inferiore di noi, dal volere soddisfare alla nostra pigrizia, al nostro orgoglio o al nostro egoismo; è per questo che vogliamo servire il Signore, ma mettiamo delle condizionali, che vogliamo essere generosi però, se capitano delle circostanze, vogliamo esimercene. Insomma è voler conciliare delle cose che non sono conciliabili. Il Signore ci ha indicato il Padre celeste, modello perfetto, dal quale viene la parola, viene il comando, viene la comunicazione di ciò che dobbiamo fare. Fare tutta la volontà di Dio, fare sempre la volontà di Dio, non volere mai diminuire dalla volontà di Dio. È per questo che il Signore ci ha dato una facoltà preziosa, che è la nostra coscienza. La coscienza è il giudizio pratico della retta ragione: capiamo bene quello che il Signore vuole, riusciamo a catalogare le nostre responsabilità. Dobbiamo fare della nostra coscienza il grande mezzo della nostra santità. Obbedire alla coscienza, formarci una coscienza sempre molto delicata, una coscienza sensibile e che ci dica tutta la verità. E così, azione per azione, momento per momento, sentiremo come tradurre la parola di Dio, come fare la volontà del Padre celeste, come fuggire dall’odiosa mediocrità, cui sempre tendiamo. Un impulso.

Al centro della nostra coscienza c’è lo Spirito Santo. Se siamo disponibili è la voce stessa dello Spirito che risuona in noi, è la Sua forza che ci conduce. Restiamo ben uniti allo Spirito Santo, abbiamo il senso della dipendenza. È nostro ospite, in fondo al nostro cuore. Ascoltiamo. Non diminuiamo mai, non divergiamo mai, restiamo sempre così pronti sereni e forti.

Gn 12, 1-4; 2 Tm 2, 8-10; Mt 17, 1-9

“Il suo volto brillò come il sole”: un momento di paradiso, la Trasfigurazione.

Perché ci è presentata proprio nel cuore della Quaresima? Non è la Quaresima un tempo di austerità e di penitenza? Proprio per questo ci è presentata, perché noi capiamo bene la verità centrale della nostra fede: è necessario che tutti noi partecipiamo alla sofferenza e alla croce di Gesù, per partecipare allo splendore della sua gloria.

Noi con facilità ci perdiamo d’animo e questo susseguirsi di cose nel tempo ci fa dimenticare l’eternità, ci fa dimenticare che siamo in una prova. Il significato della nostra esistenza sta proprio che è una prova, perché breve è il nostro tempo ma, se saremo fedeli, sarà eterno il nostro gioire. Presto passano questi nostri giorni, questi giorni, e il linguaggio non è mio, ricordate che è nella Scrittura, presto passano questi giorni del nostro pellegrinaggio, e poi … e poi c’è l’apparizione del Salvatore nostro Cristo Gesù. Egli, che ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’immortalità.

Anche per noi si verifica ciò che si è verificato per Abramo. E’ necessario che partiamo dalla nostra terra, per arrivare a quella terra, a quella terra benedetta dove, con il Signore Gesù e la sua Madre benedetta, saremo la gioia di Dio, avremo la gioia di Dio, non avremo più nessuna cosa che ci turba.

Il cristiano deve tenere sempre davanti il paradiso, sempre, sempre! Quel giorno che dimentica il paradiso, è un giorno di smarrimento, è come un viaggiatore che dimentichi la meta del suo viaggio e perciò non cammina più in direzione.

Noi abbiamo un compito su questa terra, abbiamo una responsabilità ed è giusto che noi la compiamo fino in fondo. Non è per disprezzare gli impegni della terra, è per sentirne tutta la relatività, per sentire che, pur impegnandoci fino in fondo per il bene della terra, non è il bene della terra quello che può saziare il nostro cuore e quello dove ci possiamo fermare. Noi dobbiamo anelare a cose sempre più grandi, sempre più belle, perché è nella misura del seme la proporzione della messe.

Lavoriamo, lavoriamo per il buon Dio, lavoriamo e impegniamoci nell’amare i nostri fratelli, impegniamoci in ogni sorta di opere buone. Purifichiamo il nostro cuore da tutti gli sbagliati attaccamenti, cerchiamo di costruire più che possiamo, perché il tempo è breve e il tempo diventa misura di eternità. Un giorno perduto è un giorno perduto per l’eternità. Abbiamo pochi giorni, pochi! E dobbiamo impegnarci molto, perché questi giorni ci sono dati per un premio che è infinito. Lavoriamo! “Soffri anche tu insieme con me”, dice san Paolo nella lettera che abbiamo letto, “Soffri anche tu insieme con me per il Vangelo. Soffri anche tu”.

Perché soffri poco? Perché ti impegni poco? Perché accumuli poco? Perché ti disperdi in sciocchezze, che a niente servono? Perché la tua preghiera è così stanca e languida, così distratta e superficiale? Perché la tua carità verso il prossimo è così imperfetta, è così misera? Perché ti lasci andare a tante impazienze, a tante forme di egoismo? Perché ti lasci andare a tante mormorazioni e a tanti giudizi che sono, lo sai, condannati dal Signore? Perché non domini di più il tuo corpo, la tua sensualità? Perché non sai essere più austero e vivere bene la tua Quaresima? Perché sei così pigro e indisciplinato alla grazia di Dio?

Ecco, pensa, pensa che devi salire con gli apostoli la montagna. Pensa che con gli apostoli devi andare in alto e lì vedrai che miracolo di trasfigurazione! “Signore, come è bello per noi restare qui”, così noi diremo.

Ecco perché non ci dobbiamo stancare, anche se la salita è faticosa, ecco perché dobbiamo accelerare i passi.

Il Signore ci aspetta e nella gloria del suo volto sarà tutta la nostra gioia.

Dn 9,4-10; Lc 6,36-38

“Siate misericordiosi”. Siate misericordiosi, senza limiti, perché lo dovete essere come il Padre vostro che è infinitamente misericordioso.

Vorrei che questa sera la nostra riflessione fosse proprio qui, nel cercare di capire come il Signore ci vuole misericordiosi.

La misericordia non è una giustizia, è una carità, è un atto di bontà, è un atto per cui il Signore ci rimette e a che titolo ce lo rimette? A un titolo gratuito, perché Lui è buono. Noi non abbiamo il diritto di essere perdonati, noi abbiamo la nostra miseria che grida. Dobbiamo stare ben attenti, perché vorremmo la misericordia, ma la misericordia deve essere invocata e si devono porre i termini, le situazioni per cui la misericordia si avveri. Lo sappiamo bene. Quando arriva a noi la misericordia? Quando noi siamo pentiti e invochiamo il perdono: Dio perdona anche i peccati più orrendi, ma a chi è pentito, ed è vero che, se di un peccato veniale non ci pentiamo, non avviene la misericordia. La condizione è essere pentiti. Pentiti sul serio. Tu ti vai a confessare, non hai il diritto al perdono. Puoi ottenere la misericordia, se sei pentito, se piangi sul tuo peccato.

Allora c’è questa grande realtà: noi attraverso la misericordia di Dio, possiamo acquistare ciò che abbaiamo perduto, possiamo, anzi, diventare migliori di quello che eravamo prima di peccare, ma dobbiamo andare per questa strada, la strada del sincero perdono. Come si esercita questo sincero perdono? Attraverso il sincero pentimento. Tu sei pentito dei tuoi peccati e dai il sincero perdono al tuo fratello e questa è la prova che tu sei pentito. Ma se non perdoni di tutto cuore al tuo fratello, vuol dire che non sei pentito. Se tieni dentro di te qualche cosa, se tieni il risentimento, se tieni l’astio, se tieni la distanza, vuol dire che tu non sei nelle condizioni per meritare la misericordia di Dio. Non sei. Non sei pentito, non meriti la misericordia.

Il Signore ci conceda di saper perdonare ai nostri fratelli i loro torti e i loro difetti, per potere dimostrare al Signore che siamo veramente in condizioni per ottenere la Sua misericordia, che siamo veramente pentiti dei nostri peccati, perché misuriamo quello che abbiamo fatto di sbagliato e non abbiamo pretese.

Is 1,10. 16-20; Mt 23,1-12

“Dicono e non fanno”. Diciamo e non facciamo. Abbiamo bisogno di sincerità, di una sincerità forte, autentica, profonda, perché l’ipocrisia va contro Dio somma verità e il Signore ha scagliato la Sua parola sugli ipocriti, la Sua parola di condanna e di rimprovero amaro. Eppure i farisei sono una pianta che non è venuta a meno, è una pianta che germoglia con molta forza, con molta estensione. Ognuno di noi ha paura di potersi definire un fariseo, ma se ci pensa bene è molto facile che senta di meritarselo. Dobbiamo essere sinceri.

La prima sincerità è in questa umiltà davanti a Dio. L’umiltà fa parte della virtù della temperanza. Non vogliamo di più di quello che siamo! Non pretendiamo di più del nostro merito! Quante pretese abbiamo verso Dio e come vogliamo giudicare le Sue opere e come teniamo poco conto dei Suoi disegni e ancora meno conto dei nostri peccati. La nostra insincerità nasce proprio di qui. Ci crediamo di più di quello che siamo. Pensiamo di meritare di meglio di quello che il buon Dio dispone. Ecco allora la nostra posizione davanti a Dio diventa falsa e suoniamo come suona una moneta falsa, contraffatta. Suoniamo male, perciò anche di fronte al prossimo, perché vogliamo innalzarci sugli altri e ci crediamo migliori. Di qui le nostre critiche, le nostre animosità, le nostre inquietitudini; di qui tutto un germogliare di cose sbagliate. Molte volte è un formicaio che si muove disordinatamente. Un formicaio nel quale si muovono tutti i difetti.

Abbiamo bisogno di umiltà e la dobbiamo chiedere. La dobbiamo chiedere allo Spirito di verità che ci illumini e allo Spirito di fortezza perché ci faccia essere generosi e decisi. Sforzo, impegno. Un impegno fervido.

L’umiltà è il fondamento di tutte le virtù. Il che vuole dire che, se manchiamo di umiltà, non c’è nessuna vera virtù. Siamo qualche cosa di vuoto. È un’ombra la nostra vita spirituale se non abbiamo l’umiltà. La Madonna è stata grande perchè è stata umile; chiediamo a Lei la grazia di lavorare molto su questa virtù.

Ger 18,18-20; Mt 20,17-28

“Il figlio dell’uomo sarà consegnato… Il figlio dell’uomo, non è venuto per essere servito, ma per servire”. Lo sappiamo bene che sarebbe bastata una parola, solo una parola, che sarebbe bastato un gesto, per Gesù a esonerarlo da ogni dolore, da ogni tribolazione, da ogni afflizione. Ma Gesù quella parola non l’ha pronunciata, anzi, ha detto che era venuto per morire, che era venuto per soffrire, era venuto perché la sofferenza è redentiva.

C’è nel dolore una potenza che può muovere tutto. Noi dobbiamo pregare il Signore soprattutto in questo tempo di quaresima, per imparare il bene che c’è a soffrire, il merito che si acquista accettando le cose contrarie.

Noi dobbiamo imparare da Gesù, che la vita vale soprattutto quando, nel dolore, si fa la volontà di Dio, quando si accetta il dolore per la propria redenzione e per la redenzione degli altri.

Questa lezione è dura, durissima per noi, perché tendiamo sempre a qualche cosa di estremamente superficiale, esteriore e anche le cose buone che facciamo, le vediamo più come una nostra soddisfazione, invece di un servizio.

Dobbiamo non smobilitare, ma dobbiamo sempre meditare su questo esempio di Gesù, questo esempio che ci indica la croce e, al di là della croce, la vittoria della resurrezione. Dobbiamo imparare da Lui e impegnarci nelle piccole cose, per prepararci a quelle grandi cose che il Signore può volere da noi. Le piccole vittorie, i piccoli no che diciamo a noi stessi, le mortificazioni, le penitenze, gli atti di pazienza, di umiltà, di carità, gli atti con i quali rinneghiamo quello che sarebbe secondo il nostro egoismo e adottiamo ciò che è secondo la carità del Signore.

Un esercizio forte, continuato, generoso.

Ger 17,5-10; Lc 16,19-31

“Neanche se uno risuscitasse dai morti, sarebbero persuasi”.

Chi non ascolta la parola di Dio, si prepara un abisso. Dio dà una parola che è vita, lo sappiamo, il peccato è morte. Dice l’apostolo san Paolo: “Attraverso il peccato è venuta la morte”. Sì, questa morte è la morte eterna, perché l’inferno non è che il peccato in uno stato di termine. Il peccato, se non è rifiutato, se non è pianto, diventa l’inferno, diventa l’inferno perché il peccato è non riconoscere Dio, non riconoscere la Sua grandezza, non obbedire ai suoi comandi. L’inferno è Dio che non riconosce più la Sua creatura. Come un artista rifiuta la sua opera deformata, così Dio che è partito nel Suo mirabile amore: “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”, Dio deve rifiutare la Sua opera deformata, avvilita. L’uomo fatto per essere un angelo, ritorna con il marchio della bestialità. L’uomo fatto per la verità, viene pieno di menzogna. L’uomo fatto per l’amore, viene pieno di odio.

Dice Lazzaro: “Dammi da mangiare”, ma il ricco non lo dà, non riconosce nel povero il suo fratello. Ecco, l’inferno è proprio Dio che vendica, di una vendetta eterna, questo rifiuto delle Sue creature, fatte a Sua immagine, fatte con il Suo segno. Ecco l’inferno.

Ci sono molti che si scandalizzano dell’inferno, si scandalizzano perché non capiscono che l’amore non è una debolezza, l’amore è una forza e, tanto più grande è un amore, tanto più è una forza e chi si oppone a una forza di sua volontà, è schiacciato. Perché, ricordiamolo sempre, l’inferno non è che per quelli che lo vogliono. Dio fa di tutto, tutta una vita, tutto il Suo sangue, tutte le Sue grazie. Come possiamo narrare di ogni anima, ciò che Dio fa nell’intimo, con il rimorso, con l’ispirazione. Si dice che Dio perseguita un’anima, perché la vuole, perché è costata tutto il sangue di Suo figlio. Chi rifiuta l’amore cade nell’odio, in quell’odio terribile che è la lontananza, la fuga da Dio, la fuga per sempre da Lui e Lui, che è l’oceano infinito di ogni bene, se manca, è un tormento orrendo. “Certo – dice Lazzaro- (Lazzaro è colui che ha servito Dio) – Ho fiducia nel Signore” e la sua fiducia è la gioia eterna.

Passa presto questa vita, passa presto questo nostro tormentarci, ma dopo c’è la pace. Invece il ricco: “Questa fiamma mi tortura”; un fuoco, un fuoco non certo quello della terra, un fuoco terribile.

Fermiamoci, ma riflettiamo a lungo. L’inferno è una verità di fede, l’inferno può diventare una realtà per noi. Sta a noi trionfarne. Sta a noi non caderci, sta a noi vivere nell’amore, accettare tutto l’amore che ci viene quotidianamente da Gesù, dal crocefisso, dalla Sua Eucarestia.

Vivere nell’amore per trionfare nell’amore, vivere nell’amore per sorpassare il grido delle passioni, la schiavitù dell’istinto.

Pensiamo: quanto è terribile l’inferno! Dice sant’Agostino: “Non sono dei vivi, non sono dei morti, sono sempre dei moribondi”. Vivere sempre in un’agonia terribile. Noi vogliamo invece vivere nella gioia più bella, più grande. È la gioia della comunione con Gesù e della comunione con i nostri fratelli. Un amore fervido, grande, che diventa eterno.

Gn 37,3-4. 12-13. 17-28; Mt 21,33-43. 45

“El’uccisero”.

Il gesto infame si ripete. Noi, quando commettiamo un peccato grave, torniamo a crocefiggere Gesù nel nostro cuore. Veramente. E questo sentiamo che è la pura verità, non è un’esagerazione. È pura verità perché è parola della Scrittura: “Essi –dice la Scrittura- tornano a crocefiggere Gesù nel loro cuore”.

Troppe volte pensiamo alla passione di Gesù come qualche cosa di assolutamente lontano, ma in ogni messa c’è il cuore di Gesù che sanguina, ma in ogni uomo che è ucciso e calpestato, in ogni uomo che è deriso, è Cristo che soffre, perché ogni uomo è un prolungamento di Cristo.

Noi sentiamo quanto è grave anche ai nostri tempi questo ripetersi di crocefissioni. In questi giorni, noi dobbiamo essere molto vicini al papa che nel suo pellegrinaggio, soffre, è proprio il rappresentante di Gesù crocefisso, che dà la sua vita per il bene del popolo.

Dobbiamo allora pregare perché la nostra fedeltà al Signore sia grande, perché capiamo bene che essere cristiani non si riduce ad avere certe preghiere e certe devozioni, ma che a essere dobbiamo tradurre Gesù nella nostra vita, tradurre Gesù nel nostro amore, dobbiamo proprio riempire la vita nostra con l’amore, amando Dio e perciò obbedendo ai suoi comandi, amando il nostro prossimo ed essendo squisitamente generosi con tutti. La carità fraterna, ci dice che è necessario che noi facciamo di più, perché il mondo ha bisogno di amore, ha bisogno di carità, perché il mondo langue, si agita, è nell’angoscia, perché c’è poco amore.

Noi dobbiamo invocare questo amore e da parte nostra unirci strettamente a Gesù nella messa perché dobbiamo essere molto docili nelle Sue mani. La Scrittura porta un paragone e dice che dobbiamo essere docili come la creta in mano al vasaio. Docili. Dobbiamo essere contenti di fare quella che è la volontà di Dio, quello che è il nostro dovere, giorno per giorno, con umiltà, con fede, con perseveranza.

Mic 7,14-15. 18-20; Lc 15,1-3. 11-32

È una grande consolazione ed una grande gioia, pensare alla misericordia di Dio: quanto è buono e quanto ci viene incontro. La parabola del figliuol prodigo non si può mai leggere senza commozione. Però dobbiamo pensare bene alla nostra responsabilità, una responsabilità forte, perché Dio è più padre di ogni padre e la Sua paternità è l’immenso tesoro che noi abbiamo, un tesoro che dobbiamo assolutamente evitare di abusare, di trascurare. C’è un peccato che grida vendetta davanti a Dio, c’è un peccato che va contro lo Spirito Santo ed è peccare nella speranza del perdono, essere più peccatori perché Dio è buono, dire: lo posso fare questo peccato, dopo me ne confesserò. Usare così della misericordia di Dio è un gravissimo peccato. Il peccato nella speranza nel perdono è l’offesa più grande che possiamo dare al Signore in quest’ordine di cose. Proprio perché il Signore è buono, proprio perché il Signore è misericordioso, noi dobbiamo ancora di più evitare il peccato. Perché: cosa vuol dire che è misericordioso? Che ci vuole molto bene, che ci vuole tanto bene che non si ferma di fronte alle ripetute offese che noi senza riflettere diamo. Vuol dire che se Dio ci ama tanto, il motivo per non ricadere lo troviamo esattamente qui, lo troviamo qui: non si può offendere chi ama e chi così teneramente ci ama, non possiamo offendere chi tante volte ci ha perdonato, chi tante volte è stato vicino a noi con una tenerezza meravigliosa.

Ecco arrivare allora a capire di più l’amore del Signore, ad essere più fedeli a questo amore, a sentire che delle nostre manchevolezze, dei nostri peccati, delle nostre ricadute, noi possiamo averne ragione perché l’amore di Dio ci dà la forza, perché l’amore di Dio ci dà la spinta, perché l’amore di Dio supera in noi ogni cosa. Chi pecca è perché vuole peccare, ma chi ama si deve lasciare portare dall’amore, dall’amore tenero e meraviglioso di Dio.

Promettiamo un impegno generoso, forte, inequivocabile.

Es 17, 3-7; Rm 5, 1-2; 5-8; Gv 4, 5-42

Il simbolismo dell’acqua. Tutta la Liturgia oggi insiste su questo simbolismo: dove manca l’acqua è il deserto e nel deserto si ribellarono gli Ebrei, si ribellarono a Dio, non credettero alla sua provvidenza e al suo amore. L’acqua diventa simbolo di gioia, simbolo di amore, simbolo di una vita che è partecipata nell’amore, è l’acqua misteriosa che vuole dare Gesù, è quest’acqua alla quale gli uomini devono attingere.

Non è forse Gesù, il suo mistero di grazia quello che salva l’umanità? Non è in lui che tutta la nostra vita prende un significato e un valore? Non è in lui che noi possiamo trovare la speranza della vita, la speranza di ogni giorno? Eppure noi lo vediamo stanco sull’ora del mezzogiorno, dopo aver fatto un cammino lungo sotto il sole cocente, stanco, sedersi e domandare da bere. Nota sant’Agostino: un Dio stanco, un Dio stanco che però promette alla samaritana un’acqua, che sale fino alla vita eterna.

È Dio che ha sete dell’uomo, che vuole dire all’uomo di staccarsi da tutti i suoi piaceri, da tutti i suoi idoli, da tutte le sue pretese consolazioni per rivolgersi a lui, per essere in lui. Un Dio stanco allora, un Dio forte, un Dio che sa dare all’umanità l’unica ragione di vivere, l’unico senso di esistenza. È lui che, come spiega alla samaritana, è diventato l’unico tempio, il tempio vivo dove si può lodare e benedire Dio, dove si può trovare Dio, dove ci si può incontrare con Dio. “E’ venuta l’ora ed è adesso”.

Ecco, tutti gli uomini sono chiamati ad un incontro forte con Cristo. Tutti gli uomini! In Cristo trovano la grazia, cioè in Cristo trovano una comunicazione meravigliosa di amore, un dono soprannaturale che trasforma tutta l’anima.

Allora in Cristo l’uomo diventa figlio di Dio, in Cristo l’uomo diventa santo, diventa un vero amico di colui che gli sembrava così lontano.

Oh, il prodigio, il miracolo di Cristo! Il suo Cuore è per l’umanità. “Levate il capo, è già la messe”. E’ già la messe, cioè in lui tutta l’umanità può e deve salvarsi, tutta l’umanità deve trovare la sua fortezza, deve trovare la risoluzione dei suoi problemi.

L’invito di questa domenica di Quaresima è allora molto evidente: unirci a Cristo, al suo mistero, alla sua grazia, ricevere l’amore di Cristo.

Allora la penitenza quaresimale non diventa solo una purificazione, diventa un itinerario per incontrarci con lui, per convertirci a lui, per darci completamente a lui nella confidenza e nell’abbandono, nel superare le nostre miserie e nel sentire la nostra vocazione di figli di Dio.

Ecco, san Paolo nella seconda Lettura ci ricorda come abbiamo una partecipazione allo Spirito, una partecipazione meravigliosa.

Noi siamo figli di Dio e “l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci è stato donato”.

Domandiamo una partecipazione forte di Spirito, perché ci faccia capire, ci guidi, dia ai nostri sentimenti la dignità, alle nostre azioni una trasformazione, che sia veramente adatta a dei figli, a degli amici di Dio e a dei fratelli di Gesù.

2Re 5,1-15; Lc 4,24-30

In questa Quaresima la liturgia insiste: bisogna avere fede, bisogna crescere nella fede, bisogna maturare nella fede. Anche oggi è insistente questo discorso di fede, sia per il lebbroso guarito, sia per i Nazaretani che non hanno miracoli, perché hanno una fede scarsa.

Noi ci dobbiamo interrogare insistentemente, perché è troppo grande la necessità della fede, troppo elevata la gioia della fede, per metterla come un problema non urgente e secondario. Noi dobbiamo insistere sulla fede. Fede allora è affidarsi a Dio, è consegnarsi a Dio. Fede è lasciarlo irrompere nella nostra vita e dominarla totalmente. È non fare conto su di noi, non far conto delle nostre risorse, delle nostre astuzie, delle nostre facoltà, ma far conto solo di Lui.

Così si ha fede, quando si pensa come Dio, si aspetta quello che ha promesso Dio, si vive della Sua carità. Troppi cristiani si accontentano di una fede piccola, troppo vaga e troppo poco efficace e trascinano la loro giornata così, dominata più da sentimenti e da convinzioni umane, cioè più del proprio io, pochissimo della parola di Dio. Crescere nella fede è allora insistere sulla nostra meditazione, perché è così, è metterci disponibili, è aprire il cuore, è essere decisi. Allora la parola di Dio può scendere, può lavorare, può trasformare. Allora il Signore rende il nostro cuore come il cuor Suo, rende il nostro cuore così distaccato dalle cose della terra da anelare alle cose celesti, rende il nostro cuore sicuro delle disposizioni di Dio e del piano di Dio da non vacillare, da non dubitare mai.

Se tu dubiti non credi, se tu sei pauroso non credi, se tu calcoli e ti fidi di cose della terra non hai fede, hai bisogno allora di alzare gli occhi e di essere come quel lebbroso che capisce che non è questione di acque, l’acqua del Giordano vale l’acqua dei fiumi di Damasco, non è questione di acqua, è questione di fede, è questione di umiltà, è questione di entrare nel piano di Dio e nel paino di Dio vogliamo entrarci con pienezza.

Dn 3,25. 34-43; Mt 18,21-35

Questa sera siamo interpellati sulla autenticità del nostro amore al prossimo. Il Signore ci dice che davanti a Lui non ci si può nascondere, perché Lui vede fino in fondo al cuore, vede ogni movimento del nostro animo, vede il movente di ogni nostra azione e, se davanti agli uomini possiamo sembrare diversi, davanti a Dio non possiamo. Il Signore ci giudica secondo l’amore. È l’amore a Lui e, in Lui, al prossimo, ciò che rende apprezzabile e degna la nostra vita. Voler bene davvero agli altri, capire le loro lacune, i loro difetti, i loro torti, perdonarli, perdonarli in verità, con tutta l’anima, fino a settanta volte sette, espressione per dire sempre, anche se ci sembra che la nostra carità venga presa per debolezza, che il nostro non reagire venga preso come mancanza di coraggio. Le parole del Signore: “Siate misericordiosi come il Padre vostro” spalancano un orizzonte sconfinato. Sempre e sempre con tutto il cuore e sempre come fosse la prima volta, non negando l’aiuto, non negando il perdono, non negando quello che in realtà è nelle nostre vere possibilità.

Quindi un amore paziente, un amore umile, un amore generoso, un amore che non vuol far pesare agli altri ciò che è il peso nostro, perché altrimenti facciamo come il servo che fa castigare il suo debitore. Essere così di anima aperta da volere essere sempre sereni, forti nel nome del Signore, con la Sua grazia, non facendo i conti sulle nostre capacità, ma facendo tutta la nostra confidenza nel Signore.

Essere buoni nel Suo nome, essere buoni perché Lui è con noi e ci aiuta.

Dt 4,1. 5-9; Mt 5,17-19

La legge. La legge viene da Dio, è la Sua sapienza, è il Suo amore che ce l’ha data. Noi purtroppo tendiamo sempre ad andare contro la legge o a discostarci da essa, perché abbiamo sempre l’istinto di fare secondo il nostro capriccio, secondo quello che ci viene detto lì sul momento.

Dio ci ha dato la Sua legge perché noi potessimo realizzare noi stessi e potessimo aiutare gli altri, perché osservando la legge noi costruiamo la nostra vera personalità, realizziamo il vero nostro bene. Dio ci ha fatti a Sua immagine e somiglianza, ci ha dato perciò un’intelligenza che capisce ciò che bene e ciò che è giusto, ci ha dato una volontà fatta per le cose giuste e buone. La chiamiamo questa legge intima del nostro essere, la legge naturale, la legge che sgorga da quella stessa anima che è uscita dalle mani di Dio e sappiamo che il Signore positivamente, storicamente ce l’ha confermata. Sono i dieci comandamenti. Sappiamo ancora che Gesù non è venuto per abolire, ma per dare compimento, per dare perfezione.

La legge evangelica. Ci vengono in mente le parole del salmo: “Quanto io voglio amare la Tua legge, o Signore”. La voglio avere sempre davanti a me. Una legge di misericordia, una legge che Iddio ha proprio fatta perché noi raggiungiamo il premio della gloria. E Gesù si è posto come la strada: “Io sono la via” ha detto. Noi capiamo bene ciò che si esprime dalla nostra natura, ciò che ci ha detto l’Antico testamento, tutto capiamo meglio guardando Gesù, andando con Gesù, camminando dietro le Sue orme.

Di qui le parole del Signore: non basta insegnarle, non basta magnificare queste leggi, bisogna osservarle. Sta tutto in questa osservanza il nostro sì a Dio, il nostro vero amore, la dimostrazione del nostro servizio e della nostra fedeltà.

Diventare osservanti della legge così come ce l’ha data Dio e così come Gesù ci ha detto: che la dobbiamo osservare nell’amore e con amore, che dobbiamo capire bene che Dio è un Padre e, se è vero che è anche nostro padrone, Dio vuole che viviamo la nostra figliolanza e tutto compiamo con affetto.

Guardiamo allora e guardiamo con più attenzione, come osserviamo la legge di Dio e il modo della nostra osservanza: quanto amore mettiamo nell’eseguire i comandamenti, quanto amore mettiamo nel realizzare la nostra vita cristiana. Molto amore, tutto l’amore possibile, invocando da Gesù Eucarestia quel flusso di grazie, quella partecipazione di Spirito Santo per cui possiamo veramente essere ogni giorno sicuri e fedeli.

Ger 7,23-28; Lc 11,14-23

“Èdunque giunto a voi il Regno di Dio”.

Dio ha avuto compassione dell’umanità, dell’umanità che si era ribellata a Lui. Noi celebriamo i Suoi interventi parlando di una Storia della Salvezza, una storia che racconta allora le misericordie di Dio per l’umanità, quelle misericordie che sono culminate nella venuta dello stesso Figlio di Dio. Il Figlio di Dio venuto uomo ha posto la Sua intercessione, il Suo dolore, la Sua morte come attestato di un amore infinito: l’amore al Padre Suo e l’amore a tutti noi. La redenzione è un’opera di amore.

Dio così ci ha dato il modo di diventare veramente figli suoi, ci ha dato la forza per realizzare la nostra grandezza di uomini e di cristiani. Dio, dandoci Gesù, ci ha dato ogni bene.

Dirà san Paolo: “Ha ricapitolato tutte le cose in Cristo”. Certo perché è qui che comprendiamo il mistero della Chiesa, il mistero del prolungamento del Corpo di Gesù. Perché la Chiesa è Gesù che agisce, è Gesù che salva, è Gesù che dona a noi la Sua parola e, attraverso i sacramenti, ci dà l’abbondanza della Sua vita. La Chiesa è un mistero perché non è fatta solamente di quello che si vede, è fatta soprattutto di quello che non si vede, cioè della presenza dello Spirito, della grazia dello Spirito. La Chiesa diventa sacramento di salvezza, diventa veramente il Regno di Dio. La Chiesa, fatta di uomini peccatori, contiene in sé la medicina divina della salvezza.

Gli uomini peccatori non riescono, non possono riuscire a rendere nulla la parola e l’opera di Dio, la misericordia di amore del Signore. Non possono. La Chiesa ha un compito che sorpassa tutti gli intendimenti umani, sorpassa tutte le singole posizioni degli uomini che la compongono.

Noi dobbiamo ringraziare il Signore perché c’è la presenza di Cristo tra di noi. È Cristo, l’uomo forte, ben armato che fa la guardia al Suo palazzo. È Lui che ci dà la grazia di poter vincere le forze del male, di poter compiere il nostro dovere. Non per nostra virtù, non per nostro merito, ma perché c’è Lui in mezzo a noi. Un uomo forte, lo stesso Verbo di Dio, ben armato, Egli è stato costituito Signore dell’universo. Cristo guarda con misericordia a ognuno di noi.

Ecco dobbiamo sentire la gioia di essere con Lui, la gioia di essere nella Chiesa, la gioia di potere essere nel Suo palazzo, la gioia di potere, se vogliamo, proseguire la Sua opera.

Quanto sforzo di santità e di bene deve fare ognuno di noi. Come si deve arricchire dell’amore di Gesù, come ne deve sentire urgente la sua missione in mezzo ai fratelli.

Fa’ che ascoltiamo, Signore, la Tua voce, la Tua voce che ci chiama così ad essere il “popolo del Suo pascolo, il gregge che Egli conduce”.

Os 14,2-10; Mc 12,28-34

La liturgia ci ricorda che cosa vuol dire amare Dio. Perché noi ci siamo purtroppo abituati a queste parole e quasi non ne comprendiamo più il profondo significato. Cosa vuol dire amare Dio? Porre in Dio tutto quello che abbiamo, tutta la nostra fiducia, tutta la nostra speranza, tutta la nostra attesa.

Il profeta Osea nella prima lettura ci dice: com’è stato nella Storia della Salvezza l’amore di Dio per noi? Avete sentito: rugiada, refrigerio, ragione di vita, gentilezza, bontà, fiorirà come un giglio, ancora, profondità, metterà radici come un albero del Libano, radicato profondamente nella terra. È questo amore di Dio che è dato a noi perché lo rendiamo nostro, perché anche noi sappiamo amare Dio, cioè porre in Lui tutto quello che possiamo pensare, possiamo desiderare.

Tutto, tutto in Dio, tutto con Lui. Ecco il peccato è proprio cercare in una cosa la felicità che dovremmo cercare in Dio, cercare in una cosa presa male, la nostra pace e il nostro ristoro. No. No. Dobbiamo sempre più persuaderci: le cose non ci possono portare felicità se sono adoperate fuori di Dio, contro Dio, se ci servono nella fuga da Dio.

Abbiamo ripetuto nel salmo responsoriale le parole di san Pietro: “Signore, tu hai parole di vita eterna”. Ecco proprio la felicità è nell’amore di Dio, all’amore di Dio dobbiamo consegnare non solo qualche gesto, qualche dono, qualche offerta di noi stessi, ma tutto quello che siamo, tutto, tutto quello che aspettiamo. E si verificano anche per noi le parole del salmo 80: “Oh, se lo ascoltassimo, se camminassimo per le Sue vie, ci sazierebbe con fiore di frumento” ed è l’Eucarestia che trasforma e ci rende simili a Gesù “li sazierei con miele di roccia” cioè con la Sua parola viva ed efficace, che scruta i sentimenti e i pensieri del cuore.

Vogliamo dunque ripromettere al Signore questa donazione totale di noi stessi perché qui sta il vero amore.

Os 6,1-6; Lc 18,9-14

L’essere peccatori è possibile e non è definitivo, perché un peccatore, se si riveste di umiltà, se si riveste di penitenza come il pubblicano, è giustificato. Andò a casa giustificato.

L’importante allora è essere dei peccatori che veramente riconoscono la gravità della loro colpa, l’indegnità di avere il perdono e non essere farisei, perché, quando con il peccato si aggiunge l’ipocrisia, sembra allora che il peccato diventi una realtà inamovibile.

Farisei. È il titolo che noi cristiani dobbiamo temere di più. È fariseo chi accusa gli altri e non accusa mai se stesso. È fariseo chi crede di avere dei meriti e crede che gli altri non li abbiano. È fariseo chi pensa di essere in posizione inattaccabile di privilegio mentre in realtà è come gli altri o peggio degli altri.

Dobbiamo temere questa qualità di fariseismo, la dobbiamo temere, perché è molto facile, perché è molto facile che ci crediamo più buoni di quello che siamo, perché tendiamo a scusarci, a non vedere quelli che sono i nostri torti e a vedere solo quelli degli altri e diciamo: quello fa il cristiano, vedi come agisce? Quello ostenta devozione, non vedi come in realtà manca? Io invece…

Ecco è quell’invece che rovina tutto. Chi è schietto davanti a Dio dice: prima di tutto devo guardare ai miei peccati, ai miei torti e non giudicare nessuno.

Come ha sbagliato il fariseo nel ritenersi migliore del pubblicano e nel disprezzarlo! Se si fosse battuto il petto e avesse pensato a sé, avrebbe avuto misericordia il Signore.

Ed ecco no. Non giudicare mai gli altri, non parlare mai degli altri con disprezzo, non mettersi sopra a nessuno, perché l’insegnamento evangelico è evidente: mettiti all’ultimo posto. Se ci mettiamo sotto a tutti non ne perdiamo niente. Se ci mettiamo al di sopra, anche solo di uno, rischiamo di cadere come il fariseo, nella colpa che il Signore non giustifica.

Ecco allora la nostra riflessione, che è riflessione di verità e di umiltà: riconoscere i nostri peccati ed è riflessione di carità nello scusare quello degli altri.

1 Sam 16, 1.4.6-7.10-13; Ef 5, 8-14; Gv 9, 1-41

Viene sottolineata fortemente l’antitesi tra luce e tenebre, perché la nostra indagine spirituale vada proprio in profondo e non ci succeda di essere come i farisei, che credevano di vedere e non vedevano, credevano di possedere la verità, di possederla tutta e andavano contro Dio, contro la logica, andavano contro l’amore misericordioso, che si rivelava in Cristo.

Noi abbiamo bisogno di interrogarci quanto siamo aperti alla luce che è Cristo, per potere nella Pasqua entrare con gioia nel suo mistero. Ci dobbiamo interrogare, perché l’ipocrisia non ci prenda e non ci sia il contrasto della nostra vita, che ripugna con quello che professiamo nella fede.

L’esperienza del cieco, che raggiunge gradualmente tutta la luce, raggiunge la luce del corpo e poi raggiunge la pienezza della luce, prostrandosi davanti a Cristo.

Noi prima di tutto dobbiamo esaminare la nostra vocazione, la nostra chiamata.

La Liturgia ci presenta l’esempio di Davide: come ha risposto a Dio, come è stato pronto, come ha saputo inserirsi nel piano cui Dio lo aveva chiamato. Davide, una magnifica figura di uomo di fede, di uomo, che pur nel turbinio delle sue passioni, non ha mai perduto il senso di dipendenza da Dio, il senso della sua fede. Davide è stato l’unico uomo, nel Vecchio Testamento, che ha detto a Dio: “Ti amo, o Dio”, ricordate, nel Salmo 17: “Ti amo, Dio, mia forza, mia rupe, mio sostegno”. Davide ha realizzato, dalla sua vocazione, un’ ascesa forte e vigorosa, un abbandono completo a Dio. Ci ricorda la nostra chiamata battesimale e ci dice come dobbiamo essere logici e chiari nella nostra vita, come non ci dobbiamo sgomentare per eventuali nostre cadute, ma come dobbiamo realizzare sempre di più, fino alla pienezza. “Un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore”: la nostra iniziazione cristiana, che dice di camminare nella fede, che dice l’esigenza di muoverci sempre, l’esigenza di creare in noi una situazione di grazia sempre maggiore.

La chiamata, il progresso, la perfezione. Un cristiano cerca la perfezione, cercando non tanto un proprio bene, ma ciò che è gradito al Signore, non partecipando alle opere infruttuose della terra, come continua san Paolo: “Svegliati, o tu che dormi, destati dai morti e Cristo ti illuminerà”. Ecco, in questa disposizione alla vita cristiana completa, alla vita cristiana senza mezzi termini, a una vita cristiana dinamica e forte non possiamo indugiare, non possiamo scendere ad alcun compromesso. La nostra linea deve essere una linea dritta, una linea forte, una linea generosa; deve essere una linea di coerenza cristiana piena, fervorosa, totale.

Ecco, in questa metà Quaresima, questa domenica ci ricorda come il Signore sia la nostra fortezza e perciò sia proprio il servirlo la nostra gioia, la nostra vera gioia.

La penitenza non è per umiliarci, la penitenza è per liberarci, per diventare padroni di noi, per rendere la nostra vita fruttuosa. Impegniamoci dunque con molto slancio e molto coraggio in questa ultima parte della Quaresima. Forse ci restano molte cose da fare nell’ordine della preghiera, nell’ordine della penitenza, nell’ordine della carità. Lavoriamo, svegliamoci, destiamoci! Facciamo che questi giorni siano pienamente e totalmente fervorosi.

La nostra comunità cristiana va verso nuove mete: il Giovedì Santo avremo l’ordinazione dei diaconi. La Chiesa di Dio, presente nella nostra Parrocchia, si arricchirà di nuove grazie, le grazie che vengono dal sacramento dell’Ordine. La nostra comunità cristiana deve essere completamente e generosamente tesa alla gloria di Dio, al bene di tutte le anime. Sono grandi giorni di attesa, sono giorni in cui tutta la comunità si deve preparare. Si devono preparare i candidati al diaconato, ma la comunità deve essere adatta a ricevere queste nuove grazie di Dio, deve essere adatta, bandendo ogni stanchezza e ogni mancanza di carità, cercando proprio di mettersi a nuovo, a nuovo con grande slancio e grande entusiasmo.

2Sam 7,4-5. 12-14. 16; Rm 4,13. 16-18. 22; Mt 1,16. 18-21. 24

Dobbiamo avere tanta venerazione per San Giuseppe; dobbiamo avere tanta stima, tanta confidenza nel suo patrocinio. È stato uno degli uomini più grandi di tutta la storia, uno degli uomini più grandi di tutti i tempi, eppure è stato, nella volontà di Dio, l’uomo del silenzio. Di lui non abbiamo nemmeno una parola. Il Vangelo non ci riporta nemmeno una frase. Ha taciuto, ha servito, ha amato.

Giuseppe ci è presentato dal Vangelo soprattutto come uomo del servizio, l’uomo che sa vivere giorno per giorno del suo dovere, che sa serenamente portare il suo peso.

È stato scelto fra tutti i santi perché di una santità sublime, perché doveva essere lo sposo adatto, pronto, delicato e santo di Maria Santissima. Vero sposo, non sposo fittizio; vero sposo. E l’amore tra lui e la Madonna è modello di ogni amore coniugale. L’amore vicendevole era tale da darci un’idea di come devono essere tutti i matrimoni.

Gesù lo ha chiamato «padre» e lui ha comandato a Gesù, ha difeso Gesù e ha saputo unire la sua autorità e la sua dignità di padre con la sua immensa venerazione per Gesù.

Vorrei che capissimo come ogni giorno anche noi siamo chiamati al servizio, come ogni giorno siamo chiamati a fare bene il nostro dovere, siamo chiamati a farlo con perseveranza, con umiltà, senza spazientirci, senza lamentarci, senza cercare di scrollarci di dosso il peso nostro e buttarlo sulle spalle degli altri.

Dobbiamo imparare da san Giuseppe questo servizio confidente, ad unire l’ammirazione con la tenerezza, ad unire la nostra disponibilità con la nostra vera, continua progressione di virtù.

Vorrei che noi imparassimo da San Giuseppe a collaborare alle opere grandi.

Noi in parrocchia dobbiamo indubbiamente crescere in questa devozione. Al suo nome abbiamo intitolato la Scuola Materna; a lui abbiamo affidato questo problema che ci sta tanto a cuore; da lui dobbiamo domandare l’aiuto per poter edificare e poter insistere in quella regola di educazione forte e viva che parte nella formazione fin dai primi anni.

A San Giuseppe dunque dobbiamo domandare, a San Giuseppe allora dobbiamo saperci affidare. Possiamo, attraverso la nostra fede, ricordare che anche per noi può verificarsi quello che diceva santa Teresa d’Avila: “Non ho mai chiesto una grazia a san Giuseppe senza averla ottenuta”.

Abbiamo bisogno del servizio di Dio, abbiamo bisogno di essere capaci dell’opera di evangelizzazione. Poniamo ancora una volta nel suo cuore di padre, di protettore della Chiesa, la protezione particolare della nostra parrocchia.

Ez 47,1-9. 12; Gv 5,1-3. 5-16

Cercavano la guarigione buttandosi nell’acqua e c’era Gesù e Gesù fa capire come è Lui che guarisce, è Lui che guarisce nell’anima, è Lui che guarisce nel corpo. È Lui che porta la salvezza.

Ecco la Sua lezione perenne: abbiamo Gesù, abbiamo la salvezza, abbiamo con lui la pace e la gioia dell’anima. Troppo spesso noi manchiamo di fede in Gesù che sana, in Gesù che ha una potenza infinita, che ha una bontà infinita. Allora le nostre confessioni sono troppo spesso segnate dal formalismo, il nostro riconciliarci lo riduciamo a una cosa esteriore.

È insistente l’ammonimento di questa Quaresima: tu devi imparare a confessarti, tu ti devi confessare bene, l’esame tuo di coscienza deve partire proprio da come tu realizzi il tuo ritorno a Gesù. L’esame di coscienza su questo grande, magnifico dono. È un dono incredibilmente grande, è un fiume di misericordia. Abbiamo sentito nella prima lettura questo fiume che esce dal tempio, un fiume che produce ogni bene. È un fiume, un fiume di bontà, un fiume di grazie e un fiume che ci può veramente immergere nella gioia. Ma, poveri noi, se le nostre confessioni sono cose veramente penose, penose perché manchiamo di dolore, perché manchiamo di propositi, perché manchiamo di coraggio, di sincerità, perché manchiamo di fare una cosa vera e profonda! Invece di aprire le porte all’irrompere di questo fiume, ci trinceriamo nella nostra miseria, nella nostra squallida povertà. Non prepariamo le confessioni, non ci mettiamo a disposizione dello Spirito Santo, non meditiamo sul crocefisso, non intendiamo fare una vera penitenza, non prendiamo motivo da questa misericordia grandissima per svegliarci dal nostro torpore e ripetiamo sempre gli stessi peccati e rendiamo le nostre confessioni un esercizio noioso e anonimo. Non sappiamo approfittarne da farle spesso. Ci lasciamo andare così a un’insipienza veramente detestabile.

Erano trentotto anni che era paralizzato quel malato, trentotto anni, ma a una parola di Gesù è diventato sano e svelto. Succeda così anche di noi.

“Io ti assolvo dai tuoi peccati”. È la parola di Gesù. Che possiamo trovarci tutte le settimane, così, pronti, così generosi da camminare veramente nella strada della vera santità spirituale.

Is 49,8-15; Gv 5,17-30

Gesù ha la vita in se stesso, è la pienezza della vita, ha la vita e la dà a chi vuole. La dà a chi vuole, la dà a tutti quelli che vogliono, la dà a tutti quelli che si mettono disponibili, pronti, che si offrono.

Ecco vorrei che noi capissimo l’importanza di essere disposti a ricevere la vita da Gesù, disposti a comunicare a Lui, a unirci a Lui, a palpitare di Lui. La Messa insiste molto su questo punto, perché, particolarmente nell’Eucarestia, Gesù è sorgente di vita per la Chiesa e per ogni membro della Chiesa. È Lui che nell’Eucarestia è il centro, e chi vuole collaborare con Lui e chi vuole donare con Lui, donare di Lui, deve porsi così, in tanta larghezza di cuore.

Nella Messa noi facciamo la processione offertoriale. Noi diciamo: ecco, Signore, i nostri doni, ecco i nostri sacrifici, ecco le nostre preghiere. Noi ti ringraziamo che ci hai dato tutto. Tu benedici. Benedici e il nostro pane e il nostro vino diventino il Tuo corpo e il tuo sangue per la nostra salvezza e fa’ che anche noi diventiamo sempre più tuoi e ci trasformiamo in Te. Vedi, Signore, noi che portiamo i doni, noi che offriamo, siamo pronti all’azione delle Tua grazia. Perché, come dice la Scrittura, noi dobbiamo essere come la creta in mano al vasaio, perché Lui faccia quello che desidera meglio, faccia della nostra vita quello che può essere più gloria a Lui e più bene per la Chiesa. Ci mettiamo in tanta umiltà e per questo in tanta sicurezza, perché il Signore sa divinamente quello che è meglio, vuole solo la collaborazione della nostra libertà.

Ecco in ogni Messa capiamo bene quali sentimenti dobbiamo avere mentre vengono portati i doni, quali sentimenti di fiducia, di abbandono, nello stesso tempo che il ringraziamento esce dal nostro cuore. Dio ci dà tutto, noi diamo a Lui, restituiamo qualche cosa, perché Lui compia, attraverso queste cose, i miracoli del Suo amore: il nostro pane, il Suo corpo, così ce lo restituisce. Il nostro vino, ce lo restituisce diventato Suo sangue. I doni che presentiamo nella carità ce li restituisce con i meriti eterni.

Quanto è buono il Signore, quanto è grande, quanto è meraviglioso! Ed è su questo che insisteremo. Hai la vita, noi la vogliamo: Signore, dona sempre di più.

Es 32,7-14; Gv 5,31-47

Le parole da Gesù dette allora, sono parole anche per noi, sono parole che ci devono fare arrossire, perché sono molte le parole Sue che noi riceviamo, le riceviamo, ma sono come l’acqua che scivola sulla roccia e la roccia resta compatta. Siamo come un ciottolo che da secoli resta nell’acqua ma se si spacca, dentro è asciutto, perché la parola di Gesù deve non solamente essere nelle nostre orecchie, deve scendere nel cuore perché è il cuore che ha bisogno di essere trasformato, è il cuore nostro. “Questo popolo – dice la Scrittura – mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da noi”. È lontano da noi, cioè dal Padre, dal Figlio, dallo Spirito Santo. È lontano.

In ogni Messa, prima di ricevere l’Eucarestia, abbiamo la liturgia della parola. La Chiesa annuncia solennemente la Sua parola, la sua mirabile parola. Tutte le volte. L’annuncia e l’annuncia con forza. Noi abbiamo un tesoro, perché, quando la parola di Dio è annunciata nella liturgia, porta con sé una particolare grazia di illuminazione e di apprendimento. Ma se noi, distratti e svogliati, la riceviamo appena e poi non la meditiamo e torniamo a immergerci nelle futilità terrene, la parola non produce frutto.

Oh, vogliamo riflettere sulla nostra precisa responsabilità: Quaresima è tempo di riflessione, è tempo di approfondimento. Bisogna dare il nostro cuore a Dio, bisogna darlo tutto, ma voi – dice ancora la Scrittura – cavatevi il cuore di pietra e abbiate un cuore sensibile, pronto, sapendo che la parola di Dio ha una mirabile forza. È la parola di Dio che trasforma, è la parola di Dio che crea. Vogliamo allora compiere questo proposito: partecipare con viva sensibilità e con viva attenzione alla Liturgia della Parola, soprattutto alla domenica e applicare questa parola alla nostra vita e restare in comunicazione e in dipendenza dallo Spirito Santo. Tutto quello che si impara nella vita ha il suo senso nella parola di Dio. Niente varrebbe sapere molte cose, andare a scuola, fare molte opere, se tutto resta così qualche cosa di umano.

Tutto deve essere illuminato, tutto deve essere guidato, tutto deve essere posto nella parola di Dio per essere, come diceva Gesù di Giovanni Battista, “una lampada che arde e risplende”. Risplende perché arde.

Bisogna che il nostro cuore bruci di amore di Dio e allora tante cose mirabili il Signore farà attraverso di noi.

Sap 2,1. 12-22; Gv 7,1-2. 10. 25-30

Èla grande parola di Gesù: “Voi non conoscete il Padre, io però lo conosco, perché vengo da Lui ed Egli mi ha mandato”.

Conoscere Dio. La grande aspirazione di tutte le generazioni è qui: vedere Dio, avere esperienza di Dio, conoscerlo a faccia a faccia. C’è insistente l’aspirazione del salmo: “Mostraci il tuo volto, o Dio”. Mostraci il tuo volto. Perché vedere Dio, conoscere Dio è il tutto. Che cosa desidera il cuore umano? Amare e Dio è infinito amore. Che cosa desidera la mente umana? La verità e Dio è l’orizzonte sconfinato della verità.

Ecco quello che ci dice Gesù, Lui sì che lo conosce e ce lo fa conoscere. Ce lo fa conoscere qui nella fede, lassù nella visione. Qui nella fede, perché la fede è l’esperienza di Dio, parlo della fede vera, della fede cercata e voluta, della fede che investe la vita, della fede che è raffigurata nella stella, ricordate i magi, nella stella che conduce.

Abbiamo bisogno di fede. Il mondo è sbandato e non trova il senso dell’esistenza perché manca la fede, perché senza la fede non c’è un fondamento eterno della morale, non c’è un dialogo sicuro tra gli uomini, non c’è qualche cosa che resiste all’usura del tempo, che resista alla volubilità e all’egoismo degli uomini. Non c’è nulla, senza la fede e senza Gesù che ci dà la fede. Noi dobbiamo desiderare molto la fede, perché la fede ci mette in comunicazione con Dio, ci mette nel vero spirito di amore con gli uomini, ci è conforto nel dolore, fa brillare di una luce più alta e più duratura la nostra gioia.

Abbiamo bisogno di fede, di molta fede. Ripetiamo le parole dell’uomo del vangelo: “Signore, io credo, ma accresci la nostra fede”. ”Signore io credo” ma la mia fede purtroppo è fragile, sembra la fiamma di una candela che si tormenta al soffio del vento e rischia di spegnersi. Signore, dacci la fede, dacci una fede tanto forte, una fede che ci metta in comunicazione anche con il mondo di là, anche con coloro che vedono il Tuo volto, che partecipano della Tua gloria, che gioiscono del Tuo stesso gaudio. Dacci la fede, perché senza la fede tutte le nostre cose si dissolvono come giochi di bambini. Si dissolvono.

La fede nostra dice una grande parola che ripetiamo nel credo e diciamo: “Io credo la comunione dei santi”, credo cioè che tutti quelli che sono in Te, partecipano della tua vita, partecipano della tua gloria, partecipano della gloria della croce qua in terra, partecipano della gloria celeste.

Signore, donaci così, giorno per giorno, questo tuo conforto e questo tuo aiuto, perché uniti tutti, viventi e trapassati, viventi e coloro che continuano la vita, che gioiscono della vita in Te, siano una cosa sola, siano un’unica realtà, benedetta e santificata dalla Tua presenza.

Is 7,10-14; Eb 10,4-10; Lc 1, 26-38

Celebriamo oggi il grande mistero dell’Incarnazione del Verbo di Dio. È il grande mistero della nostra Redenzione. E dobbiamo benedire e ringraziare incessantemente il Signore, che ha avuto misericordia di noi e ha mandato il Figlio suo per la nostra salvezza. Dobbiamo sentire come senza Gesù tutto è vuoto, tutto inutile, tutto è veramente privo di significato. Con l’Incarnazione del Verbo annunciata oggi dall’angelo la terra ha potuto esultare, per questo è una festa di esultazione, ha potuto esultare, ha potuto sperare nella salvezza. Abbiamo ricevuto Gesù oggi: “il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua tenda tra di noi”, cioè è venuto oggi per restare sempre. Sempre. Per la nostra gioia, per la nostra forza, per la carità che dobbiamo realizzare tra di noi. Proprio così. Oggi dobbiamo saper valutare un po’ di più quanto ha fatto il Signore per noi. Proprio dalla prima pagina della Bibbia vediamo questo piano di Dio che è piano di salvezza, che è piano di amore. Dio ha voluto rincorrere i peccatori, non li ha abbandonati a se stessi, per cui la storia degli uomini diventa la storia degli interventi di Dio, la storia della misericordia di Dio, la storia di questo amore mirabile di Dio per noi. “Il nome della vergine era Maria”. Chi è scelta per essere la madre del Verbo di Dio? Chi è questa vergine così pura che è piaciuta alla purezza infinita? Chi è questa vergine, così grande che è salutata riverentemente dall’angelo, che si proclama la schiava del Signore? Mirabile fusione di due virtù: la purezza e l’umiltà. Quando esse si incontrano in un cuore costituiscono in quel cuore il Regno di Dio. La purezza secondo lo stato in cui si è, si chiama castità per gli sposati, la purezza che è mirabile armonia di valori e di amore, che è mirabile armonia che sa dare allo spirito e sa dare alla materia il giusto posto. E poi l’umiltà. Ancora più necessaria. L’umiltà senza la quale non possono consistere tutte le altre virtù. L’umiltà. Senza questa neanche la castità può piacere a Dio. Neanche la verginità più singolare. L’umiltà è la base sulla quale costruire tutto l’edificio della vita spirituale. L’umiltà della Vergine ha attirato dal cielo il Figlio di Dio. È piaciuta per la sua verginità, ha concepito per la sua umiltà. Quanto nell’accogliere la grazia del Signore dobbiamo imitare la Madonna. Sapendo accogliere il Signore nel nostro cuore nella comunione sono le due virtù che gradisce di più. Trovare un cuore casto, trovare un’anima umile. Desideriamo molto la castità, desideriamo molto l’umiltà per potere piacere al Signore, per potere essere vicino alla Vergine, per sapere gioire della vera sua gioia. E bene questa sera ha pensato un gruppo di ricevere lo scapolare della Beata Vergine del Carmelo. Bene! Un’iniziativa preziosa. Perché lo scapolare è un titolo nuovo di legame con la Madonna e vuol dire: proposito di imitarla, proposito di imitarla nella sua castità, proposito di imitarla nella sua umiltà. Noi invochiamo per quelli che domandano lo scapolare stasera particolarmente il fulgore di queste due virtù: la castità più grande, l’umiltà più profonda. Penso che allora sarà un nuovo sviluppo di cose sante, di opere buone. Sarà un nuovo sviluppo della preghiera che, irrobustita particolarmente nell’umiltà, otterrà le grazie più grandi. Indubbiamente si accrescerà l’esercizio dell’apostolato e di ogni opera buona. Si accrescerà nell’intenzione e nell’amore. Si accrescerà nella forza di penetrazione e nell’efficacia. La Madonna non dà il suo abito che per dare le sue virtù, che per dare la sua forza. Noi auguriamo questa virtù e questa forza a tutti, perché ricevendo lo scapolare della Beata Vergine del Carmelo possano veramente essere nella linea della Madonna, linea di santità, linea di forza, linea di efficacia, cioè linea di salvezza. Linea di quella salvezza per loro, linea di santità per le loro famiglie, linea di spiritualità esemplare per tutta la comunità. Questo preghiamo e questo auguriamo.

Ez 37, 12-14; Rm 8, 8-11; Gv 11, 1-45

Il miracolo di Lazzaro ci richiama, in questa quinta domenica di Quaresima, al tema di Gesù vita.

Noi andiamo verso la Pasqua e la Pasqua è mistero di vita, è trionfo di risurrezione. Noi dobbiamo comprendere, e la nostra comprensione deve essere profonda, che non è possibile aderire alla vita risorta di Gesù, se non mortifichiamo quello che in noi è di peccato, è conseguenza di peccato, è, ancor più, stato di peccato. Cioè, se non ci liberiamo progressivamente delle nostre manchevolezze, non ci può essere comunicazione profonda, non ci può essere senso del divino, non può essere trasformata la nostra vita, perché la nostra vita deve essere una sola cosa con Gesù, una sola cosa, e perciò ci deve essere una certa somiglianza. Non può fare un’unica cosa con Gesù mite e umile, chi è superbo ed egoista. Non può fare un’unica cosa con Gesù, che è purezza infinita, chi è dominato dai sensi. Non può fare un’unica cosa con Gesù pazientissimo, chi si lascia dominare da ogni forma di ira e di intemperanza. Ci si unisce a Gesù in una somiglianza morale, che viene sempre di più ad essere una trasformazione misericordiosa della sua opera; cioè, quando noi ci sforziamo di assomigliare a Gesù, Gesù sempre di più ci infonde il principio stesso della sua vita, ci infonde quel che è vigore di grazia. Non è che siano le nostre opere buone, che ottengono di per se stesse questa trasformazione radicale, non sono le nostre opere, è la misericordia di Dio che, vedendo la nostra buona volontà, opera in noi un miracolo più meraviglioso di quello che Gesù ha operato su Lazzaro.

Quando noi ci mettiamo a disposizione del Signore, il Signore agisce decisamente in noi, agisce, ci trasforma, ci rende simili al suo Figlio. E allora un’unica cosa diventa il cristiano con il Cristo, un’unica cosa, perché è veramente investito di Spirito Santo e diventa un’altra creatura, investito di Spirito Santo per la misericordia di Dio, non certamente per i nostri meriti.

Cosa dobbiamo fare allora in questo tempo di Passione, in questi giorni così sacri della vita cristiana? Dobbiamo modellarci su Cristo, guardando a lui. Modellarci su Cristo. Dovremmo sempre tenere davanti ai nostri occhi il Crocefisso e desiderare sempre di più di essere come lui nella volontà di Dio.

Perché correggerci dai nostri peccati? Perché vincere i nostri difetti? Cosa vuol dire, se non entrare nella volontà di Dio? Chi fa la volontà di Dio, ha le opere di Dio.

Quello che dobbiamo fare, leggendo il Crocefisso, deve essere proprio questo: fare meglio, fare in tutto la santa volontà di Dio. Ognuno di noi ogni giorno non deve avere altro intento e altra ambizione che fare questa volontà di Dio, farla con perfezione, farla con gioia, farla con grande, straordinario impegno.

Dn 13,1-9. 15-17. 19-30. 33-62; Gv 8,1-11

Dobbiamo cercare di capire un poco che cosa vuole dire Gesù, quando dice: “Io sono la luce del mondo”. Cerchiamo di capirlo immaginando le tenebre. Quando c’è il buio assoluto non sappiamo dove dirigerci, andiamo a tentoni e facilmente sbagliamo tutto e cadiamo in pericolo. Senza Gesù la nostra vita è un grande buio, un buio che risponde proprio a quella che è la filosofia del mondo. Dice il mondo: noi non sappiamo, noi non crediamo, noi cerchiamo di non pensare, perché se pensiamo la disperazione sale con una forza terribile di angoscia, noi non sappiamo e non sapremo e finiscono così, di chiamare bene ciò che è male, di chiamare amore ciò che è odio, di chiamare giustizia quella che è la forma più ingiuriosa di ingiustizia.

“io sono la luce del mondo” dice Gesù. Con Lui tutto diventa chiaro: il perché della vita, il senso dell’amore, il senso del dolore, il senso della gioia, il senso delle tribolazioni, il compito che abbiamo, la missione che dobbiamo eseguire.

“Io sono la luce del mondo”. Oh sì, Gesù è per noi tutto.

Vorrei che capissimo ancora di più come è proprio nell’Eucarestia che Gesù ci dona la Sua verità e ce la fa comprendere. L’importanza della liturgia della parola sta proprio qui: ascoltiamo la parola e poi accogliamo Gesù, Lui, vivo, vero, reale. È Lui che viene, è Lui che viene a noi con il Suo sacrificio, è Lui che viene a noi nella comunione. Quando uno fa bene la comunione le verità assumono una trasparenza ed una chiarezza, mirabili.

Bisogna che ci abituiamo a fare bene le comunioni, non a fare delle comunioni una noiosa ripetizione delle stesse frasi, nemmeno farle una litania di richieste, casomai superficiali e astratte.

La comunione è fatta bene quando si pone in ascolto e si ripetono le parole del vangelo: “Il Maestro è qui e ti vuole parlare”. Sì. Il Signore ci vuol parlare e se noi ci mettiamo disponibili, ha la parola per noi, quella parola che abbiamo ascoltata durante la liturgia, Lui ce la spiega, come l’ha spiegata ai discepoli di Emmaus che conoscevano la Scrittura, sapevano la parola, ma non la capivano. Solo dopo che sono stati con Lui, potevano dire: il cuor nostro batteva forte, ardeva nel nostro petto, mentre Lui parlava. Capivano tutto e hanno potuto seguirlo dappertutto. La comunione come ascolto è una comunione preziosa, una comunione ricca, una comunione forte. Stare in ascolto! Perché Lui pronunci la Sua parola e ci dirà se è contento di noi, se è contento della nostra fede, se è contento del nostro impegno. Ci dirà se è contento di quella forma di preghiera che noi diciamo, va bene, di quella forma di virtù che noi diciamo è passabile. Bisogna che Lo ascoltiamo, bisogna che Lo ascoltiamo con tanta umiltà, ma con tanta sicurezza. Viene parlare e viene per portarci al padre, viene per santificarci, viene per trasformarci in Lui.

Oh facciamo delle belle comunioni, delle sante comunioni. Restiamo lì ad ascoltarlo, più tempo che ci è possibile. Non abbiamo fretta. La fretta dopo la comunione, tante volte è solo una tentazione che tende a rendere minimo i benefici che possiamo ricevere.

Stiamo in colloquio, rimaniamo a lungo, offriamo tutto noi stessi.

Nm 21,4-9; Gv 8,21-30

“Quando avrete innalzato il figlio dell’uomo allora saprete che io sono”. È guardando alla croce di Gesù che noi siamo salvi, come gli ebrei guardavano al serpente di bronzo, innalzato da Mosè, che era una figura della croce. Solo guardando alla croce noi possiamo salvarci, in quanto Gesù, sulla croce, ha pagato l’enorme debito che noi peccatori avevamo verso Dio. Solo la voce di Gesù ha potuto ottenere la misericordia. È tanto grande il peccato che tocca l’infinito e nessuna riparazione di un uomo può toccare l’infinito. Nessuna. Ecco perché non è possibile avere salvezza che in Gesù, uomo-Dio, perché ogni azione di Gesù, essendo l’azione di una persona di dignità infinita, aveva un valore infinito. E quando sulla croce Gesù offrì il suo tormento e la sua morte per noi, la redenzione divenne splendidamente sovrabbondante. In Lui siamo salvi.

Dobbiamo perciò straordinariamente valorizzare il sacrificio di Gesù che ancora si attua e ci viene presentato nella Messa. Nella Messa Gesù ripete il suo gesto sacrificale e noi lo possiamo far nostro, far nostro e innalzare, in questa dignità di preghiera e di sacrificio, la nostra supplica a Dio per la remissione dei nostri peccati. Così ogni giorno della nostra vita, confidando in questa misericordia per avere salva l’anima nostra.

Riceviamo molte grazie nella vita, ma c’è una grazia più preziosa di tutte le altre, è l’ultima grazia, l’ultima grazia per la quale potremo morire in grazia ed entrare cioè nella piena e sicura salvezza: è la grazia che chiamiamo della perseveranza finale, è una grazia che noi non possiamo meritare, che Dio dà però alle anime che lo cercano con cuore sincero. È la grazia che ci verrà dalla croce, perché che cosa dà dignità alla nostra sofferenza e alla nostra morte? È proprio unire al dolore e alla morte di Gesù. Quali sono le disposizioni di uno che vuol morire bene? Unire la propria morte alla morte di Gesù in sacrificio di espiazione, in offerta a Dio. È una grazia così grande che noi la dobbiamo chiedere tutta la vita. La Liturgia, del resto, quotidianamente insiste: “Donaci la perseveranza, Signore, fa’ che siamo fedeli fino alla morte, donaci la vita eterna, fa’ che questo cibo eucaristico sia cibo di vita eterna”. È la grande grazia che dobbiamo chiedere con tutto il cuore, sicuri che il Signore ci esaudirà e non saremo salvi per i nostri meriti, ma sempre per la misericordia del Signore.

Nessuno può essere davanti a Dio giusto, solo Gesù è il Giusto e solo unendoci a Lui veniamo arricchiti dei suoi meriti, veniamo ad essere un’unica cosa con Lui, che ci porta al cospetto di Dio e ci dona quel Paradiso che non tramonterà mai nei secoli.

Guardiamo allora di avere sempre, costantemente il senso della redenzione di Gesù, dell’unica redenzione di Gesù e nelle Messe, che partecipiamo, sentire questa realtà di sacrificio propiziatore, sentire la volontà che Cristo ha di donarci la sua vita e di farci partecipare alla sua redenzione, e la Messa ci preparerà alla vita, ci preparerà alla morte, ci aprirà il Paradiso.

Dn 3,14-20. 46-50. 91-92. 95; Gv 8,31-42

La sincerità. È grande virtù. È la virtù che fa veramente consona la nostra vita col nostro pensiero. La sincerità. È amore alla verità, è ricerca di verità, è coerenza di verità. Noi abbiamo bisogno di meditare sulla sincerità. C’è una prima sincerità verso noi stessi. Il primo rossore di vergogna lo dovremmo avere proprio nell’intimo nostro quando non siamo logici e coerenti a quello che abbiamo proposto. Stracciamo i propositi, li buttiamo via appena fatti. Per qualsiasi motivo noi cerchiamo un’evasione da quella linea di limpidità che il Signore ci ha raccomandato. Non siamo sinceri. Non siamo sinceri quando le nostre confessioni sono fatte come sono fatte, quando la vergogna, non del peccato, ma di dire il peccato ci tiene legati. La sincerità in confessione è una sincerità che ci tocca fin nel più intimo. Confessarsi è darsi a Dio. Non ci si può dare a Dio nella menzogna. Diceva Gesù: “Voi, se amaste la verità, amereste anche Dio. Ma voi non amate la verità e perciò non potete dire di amare Dio”. Il padre della menzogna è Satana. Sincerità davanti a Dio nelle nostre confessioni e nelle nostre preghiere. Una preghiera sincera è quella che esprime l’animo, non quella che si rifugia in parole. Se la nostra preghiera dice delle parole per accontentarsi, non sono parole che vanno davanti a Dio, sono parole che suonano per noi come condanna. Noi dobbiamo essere sinceri assolutamente. La nostra preghiera deve veramente dire a Dio: “Ti amo”, quando noi lo amiamo; dire a Dio: “Ti lodiamo”, quando tutta la nostra anima va verso Lui. Non si possono dire delle parole bugiarde, perché invece di preghiera suonano certamente come offesa. Dobbiamo essere sinceri verso noi stessi in quella che è la valutazione che noi diamo di noi. Troppo spesso la superbia, l’orgoglio ci inganna. Ci giudichiamo falsamente. Abbiamo un’esagerata stima di noi stessi. Ci inganniamo. Ci diamo sempre ragione. Troviamo sempre le giustificazioni per i nostri errori. Noi siamo assolutamente falsi quando ci compassioniamo, quando ci poniamo in posizione di vittime, mentre forse siamo quelli che opprimono gli altri. Sincerità nel giudizio con noi stessi. Sincerità poi nelle relazioni con gli altri. Sincerità di carità. Sincerità di servizio. Sincerità di cordialità. Sincerità di offerta di noi stessi per un’opera. Dobbiamo assolutamente evitare ogni forma che sappia di ipocrisia. Dobbiamo amare la verità. Evitare l’adulazione. Non lodare uno quando non se lo merita. Non biasimare uno quando non se lo merita. Giudicare con rettitudine, con grande onestà le cose e gli avvenimenti. Il Signore ci dice nella Scrittura che dalla lingua noi veniamo giudicati. Quanto spesso diciamo delle autentiche bugie. Quanto spesso diciamo delle cose che non corrispondono affatto al nostro pensiero. Andiamo a cercare così delle bugie per fare bella figura, delle bugie per scusarci, delle bugie per fare insomma sempre una bella figura. Oh, amare la sincerità vera! Quella sincerità che viene dal cuore. Oh, amare la sincerità, amando totalmente la verità e cercando sempre di dire la verità in ogni occasione. I tre fanciulli nella fornace sono testimonianza di una sincerità spinta fino all’eroismo. La sincerità di Gesù è costata la vita. Anche davanti al tribunale di Caifa ha detto la verità. Ha testimoniato la verità fino in fondo. Ecco, noi dobbiamo essere suoi discepoli. Dobbiamo rifuggire da ogni forma di bugia con noi stessi e con gli altri. Dobbiamo essere supremamente limpidi. La limpidità di un’anima cristiana è una cosa non solo necessaria, ma vitale per ogni forma di testimonianza. È necessario che noi rimeditiamo così sulla nostra forma di sincerità, perché indubbiamente avremo motivo di correggerci, avremo motivo di avanzarci nella sincerità, che sarà la nostra migliore lode davanti a Dio e agli uomini.

Gn 17,3-9; Gv 8,51-59

“Chi osserva la mia parola, non conoscerà mai la morte”. Di che cosa ha paura l’uomo se non della morte? Eppure l’uomo è tanto stolto che sciupa il tempo e lo sa bene che ha il tempo misurato e sa bene che ogni quarto d’ora di tempo, vale un’eternità, eppure non si fa che sciupare il tempo, che usarlo male, che usarlo per il peccato, che usarlo per le sciocchezze, che usarlo per una serie di cose che mettono vergogna. Si è preoccupati addirittura di come impiegare il tempo e il tempo libero è diventato un problema. Quando, lo sappiamo bene, il tempo il Signore ce lo dà misurato e il tempo è da usarsi nella Sua volontà. Ognuno di noi deve pensare e dire: come vuole il Signore che io adoperi la mia vita? Come vuole che io adoperi questa giornata? Come vuole che io impieghi il mio lavoro, il mio divertimento, la mia carità?

Il grande e potente richiamo è sempre lì: c’è una volontà precisa di Dio sulla nostra vita. C’è un progetto meraviglioso da mettere in esecuzione. Ognuno di noi deve agire secondo il suo progetto e con perfezione: “Siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli”. E con amore: “Rimanete nel mio amore”. E con gioia: “Io vi porto la mia gioia e nessuno ve la può prendere”. Ecco il tempo va vissuto così, vissuto perché è dono e grande dono di vita, perché ognuno di noi sarà giudicato proprio dal tempo usato bene. Oh, impegniamoci in questa quaresima a riflettere sulla nostra vita ordinaria, comune, per vedere come siamo in questa linea e pentiamoci di un tempo adoperato male, di un tempo che si rivolta contro di noi, di un tempo che non abbiamo considerato come dono di Dio, ma come stolta posizione di autonomia, di indipendenza, di capriccio, di voglie e di stupidaggini, e abbiamo così buttato via l’oro che il Signore ci dava nelle mani e abbiamo buttato via e non ci avvenga più di buttarlo via, perché un giorno altrimenti cercheremo qualche minuto di tempo, ma non ci verrà dato, non ci verrà dato e allora ci presenteremo così all’eternità, con le mani vuote, con le mani che non hanno saputo conservare e far fruttificare il talento ricevuto.

Ger 20,10-13; Gv 10,31-42

La nostra salvezza è Gesù e la strada alla nostra salvezza è la fede. È la fede che ci fa vedere oltre le apparenze, la fede che ci guida nelle oscurità della vita e in tutte le circostanze, la fede che ci fa vedere nell’opera di Gesù la provvidenza e la manifestazione di Dio Onnipotente, che ci fa vedere in Gesù e in quello che Lui ha sofferto, la vera immagine della nostra esistenza, perché noi non dobbiamo vivere d’istinto, perché sono gli animali guidati dall’istinto; non possiamo neanche affidarci unicamente alla ragione, perché non è sufficiente, saremmo solo dei buoni pagani. Noi dobbiamo lasciarci condurre dalla fede e nella fede esempio mirabile è la Beata Vergine. È Lei che è la vera luce di tutte le generazioni cristiane, Lei perché tutta la sua esistenza ha vissuto povera, disprezzata dal mondo, perché ha avuto negli orecchi le grida che risuonavano contro Gesù sul Calvario e sembrava abbandonata. Era, invece, guidata dalla fede e ogni suo passo era secondo la parola di Dio. Noi dobbiamo chiedere alla Beata Vergine, in questi giorni particolarmente, una intercessione perché il Signore ci accresca la fede.

Dobbiamo chiedere alla Madonna la grazia di vedere nella giusta luce il mistero pasquale. Dobbiamo chiederle che ci aiuti, perché nel crocefisso sappiamo leggere bene, perché il crocefisso diventi il libro nel quale noi meditiamo in ogni tempo. Questi giorni devono essere giorni di particolare intuizione e di particolare meditazione. La Madonna ci è descritta come colei che meditava in cuor suo.

Dalla profezia di Simeone la Madonna ha avuto davanti al suo animo una tragedia, una spada che doveva trafiggerle l’animo. La Madonna con serenità, con dignità ha tenuto la sofferenza nel suo cuore, ha obbedito alla volontà di Dio, si è messa disponibile.

Noi non insisteremo mai abbastanza sul meditare la passione di Gesù, imparando a fare la volontà di Dio e a unire le nostre sofferenze e le nostre lotte e le nostre umiliazioni a quelle del Redentore, proprio come le ha unite la Madonna, che ha sofferto con Lui ed è salita sul Calvario vicino alla croce. Stava vicino al suo Figlio, perché era unita perfettamente alla sue intenzioni che erano intenzioni di sacrificio per la gloria del Padre, che erano intenzioni di amore e di salvezza per tutti gli uomini.

Maria ha uniformato la sua vita nel senso voluto da Dio, cioè in quel senso unico che è la comunione perfetta con Gesù. Noi dobbiamo desiderare con Lei di stare vicino alla croce, per apprendere questo grande linguaggio.

“Io non mi glorierò nient’altro che nella croce di Cristo” (Gal 6, 14). Oh, ripetiamola anche noi questa parola dell’apostolo, trovando nella croce la nostra forza, trovando nella croce il significato di tutta la vita cristiana, perché noi siamo pigri e questa settimana santa non sia vissuta superficialmente, facendo le stesse cose sciocche di prima, ma affondandoci nella preghiera, curando la nostra meditazione, curando il nostro raccoglimento, moltiplicando le nostre opere di mortificazione e di carità.

Insistiamo allora, domandiamo alla Madonna questa grazia: “Fa’ – ripetiamole con le preghiere dello Stabat Mater – che io porti la morte del Signore, configgi nel mio cuore le sue piaghe, perché io possa piangere i miei peccati e i peccati del mondo e possa essere con Te artefice di bene, del bene supremo per tutti gli uomini, che è la liberazione dal peccato”.

Ez 37,21-28; Gv 11,45-56

Gesù, osserva l’evangelista, non solo doveva morire per la nazione giudaica, ma per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi. E con commozione leggiamo queste parole, perché il Signore, per farci figli di Dio anche noi, ha amato, anche noi ha redento, offrendo il Suo sangue, ponendo l’oblazione della Sua vita.

Noi entriamo, questa sera, nella settimana santa ed è necessario prima di tutto, che non ci consideriamo dei semplici spettatori, spettatori di un dramma che si è svolto tanti secoli lontano da noi, spettatori e perciò con un certo grado di indifferenza. Ciò che ha fatto il Signore lo ha fatto per tutti gli uomini, lo ha fatto anche per noi.

La maniera per vivere bene la settimana santa è sentire come è nel Suo amore che si realizza la nostra vita, che è nel Suo amore e nel Suo sacrificio che noi abbiamo la speranza della vita presente e della vita eterna, che, comprati da tutto il Suo sangue, ognuno di noi deve a sua volta diventare collaboratore della salvezza, non spettatore, ma attore; non coloro che stanno a guardare, ma coloro che sentono che il mistero di Cristo si sta operando anche adesso, nella Chiesa e in noi.

Nella Chiesa perché ancora nel mondo la Chiesa, che è il Corpo di Cristo, subisce l’ignominia della passione di Gesù. Ancora la Chiesa è perseguitata e offesa. Ancora la Chiesa è interpretata male, ancora si dice: bisogna che muoia, perché è un peso per il mondo, è un anacronismo, è qualche cosa che va tolto.

E per ognuno di noi, perché nel nostro corpo, nella nostra anima, dobbiamo partecipare alla passione del Signore, dobbiamo anche noi soffrire per vincere il peccato, per non sottostare alle tentazioni, per non essere schiavi delle cattive abitudini, per non comprometterci con il mondo.

Domani, domenica delle palme, vedremo Gesù nel pieno del suo trionfo, giunto sul monte degli ulivi, piangere, piangere su Gerusalemme e ripetere: “Gerusalemme, Gerusalemme, quante volte… e tu non hai voluto”.

Ognuno di noi deve sentire la propria responsabilità. La responsabilità di acconsentire di collaborare alla grazia, di diventare veramente fedeli a Dio, perché a nulla varrebbe la nostra partecipazione liturgica, se poi nella vita concreta fossimo di nuovo ingrati, infedeli, se amassimo il mondo e le cose del mondo, quando il mondo è in posizione così antitetica e così ostile a Gesù. “Chi non è con me, è contro di me” ha detto.

Impegniamoci allora a una riflessione profonda, a una meditazione intensa, a rivivere in noi stessi il mistero della passione e della morte del Signore, perché, rivivendolo, possiamo corrispondere e possiamo, generosamente, collaborare.

Questa mattina abbiamo letto la Passione del Signore. È stato un racconto lungo, un racconto che dovremmo meditare assiduamente e contemplare con grande amore. La Passione del Signore è il vero rimedio a tutti i nostri mali. La Passione del Signore ci porta ad approfondire il piano di Dio e a volerci fino in fondo immettere in esso; ma sono pochi i cristiani che sanno meditare la Passione. La Passione è come un fiume: porta incredibile ricchezza, ma la maggior parte dei cristiani prendono solo qualche goccia. Guardiamo stasera di dare solo alcune indicazioni, perchè non dobbiamo fare altro in questa settimana che tenere davanti ai nostri occhi il Signore crocefisso. Prima di tutto, una prima cosa che dobbiamo chiedere allo Spirito Santo è chi è che soffre, capire bene nella fede il soggetto di questa sofferenza. Chi soffre è il Figlio di Dio, è il Figlio prediletto del Padre, è lo splendore della sua gloria, è la sua immagine; e soffre, e la misura della sua sofferenza è difficilmente misurabile, anche solo inizialmente. Soffre nell’anima, soffre nel corpo. Soffre nell’anima: la sua anima, creata come il grande capolavoro di Dio, è un’anima sensibilissima, è un’anima di una intelligenza prodigiosa, è un’anima di una sensibilità unica. Ha dunque una capacità di soffrire superiore a quella di tutti gli uomini, soffre molto, soffre per il peccato, soffre per gli ingrati, soffre d’essere lasciato solo. Soffre nel corpo, in quel corpo così perfetto, il più bello tra i figli degli uomini; soffre e non c’è una parte del suo corpo senza sofferenza. Soffre nel capo e le spine si sono approfondite; soffre per espiare i nostri peccati di pensiero, di orgoglio, di odio, di giudizi temerari, di impurità; soffre nel suo adorabile volto perchè è stato percosso: lo percuotevano e si divertivano a percuoterlo. I suoi occhi soffrono alla vista di tanti cattivi, sono bagnati di lacrime e di sangue. Soffre perchè noi vediamo le cose male, perchè noi non sappiamo vedere le cose nell’ordine creato da Dio, abbiamo uno sguardo cattivo e malizioso. Soffre nella sua bocca: una sete tremenda, uno dei supplizi più grandi di un crocefisso è la sete. Il Signore soffre la sete e lo dice anche: “Ho sete” (Gv 19, 28), lo dice e gli danno una bevanda orribile e Gesù non vuole perdere la sua lucidità con una bevanda che tende a stordirlo, rifiuta. Il Signore soffre nelle mani e le sue mani che hanno fatto miracoli, le sue mani che si sono stese ai figli degli uomini sono orribilmente piagate e confitte alla croce. Soffre nel suo corpo flagellato; e non c’è un posto dove non soffre, soffre nei suoi piedi trafitti, perché noi abbiamo fatto molti passi di male nelle vie del peccato. Ecco perché soffre il Signore: soffre per noi, soffre per me, e ognuno di noi, se vuole essere nella verità, non per una amplificazione, se vuol essere nella verità deve dire: questo per me. E allora, guardando al crocefisso, il nostro cuore si deve aprire, si deve sciogliere il nostro cuore che purtroppo è più duro di un sasso, si deve commuovere, non di una commozione superficiale e sentimentale, di una commozione profonda. Che cosa abbiamo fatto?! E ne viene allora di conseguenza: che cosa dobbiamo fare? Che cosa dobbiamo fare? Dobbiamo con tutta la chiesa partecipare al mistero della sua Passione, dobbiamo sentire che anche adesso la chiesa soffre e non possiamo non partecipare al respiro grande che si eleva dalla chiesa di tutto il mondo. Dovunque c’è un perseguitato, c’è Cristo; dovunque c’è una ingiustizia, c’è Cristo; dovunque c’è un tradimento, lì è Cristo. Ecco, proprio sentire il desiderio di finirla con i nostri peccati e di essere più in consonanza, in unione con la chiesa che in tutto il mondo combatte e soffre la passione; e sentire che le nostre responsabilità non possono essere esaurite in un sospiro, ma devono tradursi in tutta la nostra vita, perchè solo così sentiremo bene l’alleluia. Non sentiremo la Pasqua, nemmeno superficialmente, se non ci immergiamo con fortezza nella Passione.

Is 42,1-7; Gv 12,1-11

“Maria, presa una libra di olio profumato, cosparse i piedi di Gesù”.

Una libra. Non si accontentò di qualche goccia. Una libra. Quanto profumo. Tutta la casa si riempì di quel profumo. Quanto profumo che scandalizzò Giuda: gli sembrava che il prezzo enorme di quel profumo potesse convertirsi in una elemosina. Non capiva, con il suo cuore chiuso, con il suo cuore che calcolava con l’avarizia che lo dominava, non capiva la legge dell’amore. La legge dell’amore è dare tutto, è dare sempre, è dare al di più del dovuto.

Io vorrei che questa sera noi riflettessimo sulla nostra generosità, perché troppo spesso i calcoli ci ingombrano e stiamo sempre lì a misurare che cosa dare al Signore e fino a quando gli dobbiamo dare e se basta questo e se basta quest’altro e se facciamo peccato veniale o peccato mortale, se è sufficiente per essere cristiani fare quella determinata cosa a scartamento ridotto.

Il Signore con l’esempio di Maria, da Lui lodata, ci suggerisce una legge fondamentale: che con Dio non è mai troppo. Mai troppo di amore, mai troppo di dono, mai troppo di fedeltà.

Al Signore bisogna saper dare tutto. Il Signore, infatti, ci ha dato l’esempio. Era proprio necessario che Lui soffrisse tanto? Era proprio necessario che Lui morisse in croce? Era proprio necessario che Lui fosse così tormentato nell’anima e nel corpo? Lo sappiamo per certo: sarebbe bastato e sopra-bastato un gesto solo Suo, una preghiera: aveva un valore infinito, avrebbe salvato tutto il nostro mondo e mille mondi, se ci fossero stati. Ma Gesù amava, di un amore che Lui stesso definì non poter essere più grande e proprio per amore ha fatto tutto quello che ha fatto.

Ecco, corrispondere all’amore di Gesù è fare di più di quello che strettamente è esigito dalla legge, è fare di più, è fare tutto quello che è in nostra possibilità, è fare tutto quello che lo Spirito Santo ci suggerisce nel cuore.

L’Eucarestia è la continuazione dell’amore della croce. Gesù è voluto restare nell’Eucarestia, ripetere il Suo sacrificio, rimanere continuamente in mezzo a noi, venire a noi come un cibo, proprio dandoci così la dimostrazione perfetta di una carità che, certo, non avremmo potuto immaginare.

Ci sia dunque, ogni volta che veniamo all’Eucarestia, ci sia stimolo, ci sia esempio, ci sia spinta a fare quanto il Signore vuole, a dargli quanto il Signore domanda, ad amarlo davvero perché allora sì che la nostra Eucarestia ha un senso, allora sì che il Signore può dire: quest’anima mi capisce, quest’anima mi è unita, in quest’anima io trionfo.

Essere cristiani non è osservare una certa norma morale, una serie di norme, ma essere cristiani è lasciarci conquistare dal Suo amore e corrispondergli fino alla fine.

Is 49,1-6; Gv 13,21-33. 36-38

“Uno di voi mi tradirà”. Con paura, la paura dell’amore, dobbiamo riflettere su queste parole. È il mistero del peccato, il mistero nel quale, pure noi, possiamo essere coinvolti.

Giuda era stato con Gesù, sempre vicino a Lui, aveva ascoltato le Sue mirabili parole, quelle parole che colmavano l’anima e l’affascinavano; aveva assistito a tutti i miracoli, anche i miracoli più grandi: la resurrezione dei morti; aveva avuto tante prove che Gesù gli voleva bene. Ebbene, Giuda Lo tradisce.

E Pietro? Pietro, l’amico prediletto, il capo della Chiesa, colui che giurava che non lo avrebbe mai rinnegato, tre volte, in quella notte lo rinnegherà. E noi non siamo migliori di Pietro. Oh, come dobbiamo temere la nostra debolezza! Come dobbiamo avere un grande timore di non saper stare uniti a Gesù! Perché la fortezza non è in noi stessi. Noi siamo estremamente fragili. La fortezza sta nel Signore, è Lui che ci dà il modo di servirlo e l’energia per essere fedeli.

Il segreto della vita spirituale è questa vicinanza con il Signore, una vicinanza umile, non era la vicinanza di Giuda, una vicinanza umile, una vicinanza attenta, una vigilanza che sempre dubita di sé ed è sicura di Gesù. Noi stiamo per concludere in nostro itinerario quaresimale e dobbiamo saper fare dei propositi che possano durare nel tempo, che possano essere veramente costruttivi. Orbene, insistiamo sull’umiltà! Essere umili vuol dire invocare, pregare, vuol dire usare la prudenza, essere in diffidenza verso noi stessi, perché il demonio non ci metta nell’animo dei pensieri cattivi e ce li faccia tener per buoni, che il demonio non ci metta nel cuore delle risoluzioni sbagliate, che riteniamo sagge, perché è proprio così il grande inganno, come ha detto Gesù: “Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi vestiti da agnelli e sono lupi rapaci”.

Fuggire il peccato diffidando di noi stessi, lasciandoci guidare dalla grazia dello Spirito che agisce direttamente nel nostro cuore e nella Chiesa di Dio. Cerchiamo di vivere uniti alla Chiesa, di essere sempre fedeli in ogni occasione e il Signore, vedendo la nostra confidenza, non ci mancherà, ma ci guiderà sempre con quella meraviglia che sa operare la Sua carità.

Is 50,4-9; Mt 26,14-25

“Gli fissarono trenta monete di argento”. Il prezzo di uno schiavo, il prezzo del tradimento.

Giuda tradisce fino in fondo; tradisce perché il suo cuore si era chiuso all’amore, si era chiuso già un anno prima, al tempo del discorso di Cafarnao, quando Gesù aveva annunciato il grande mistero della fede, aveva annunciato l’Eucarestia. Aveva detto: “Se non mangerete la carne del Figlio dell’uomo, se non berrete il Suo sangue, non avrete la vita in voi”.

Credere a questo miracolo era solo dell’amore, solo chi credeva all’amore di Gesù, chi era aperto al linguaggio e alla logica dell’amore poteva credere. Giuda non credette e la sua crisi precipitò di giorno in giorno, fino a quell’iniquo contratto: “Quanto mi volete dare perché io ve lo consegni?”.

Dobbiamo meditare molto sulla nostra fede nell’Eucarestia. Ci prepariamo alla cena del Signore di domani. Dobbiamo revisionare totalmente la nostra posizione in riguardo al mistero eucaristico. Dobbiamo sentire quanto il Signore chiede e domanda a noi, proprio per capire il Suo grande dono, il Suo mirabile dono, quel dono che supera ogni altro. Per noi si è dato, per noi si è immolato, per noi è rimasto nell’Eucarestia. È rimasto perché attorno a Lui si forma la Chiesa, ed è attorno a Lui che si deve formare e sviluppare il nostro amore fraterno, la nostra carità. Si è immolato per questo, è voluto essere cibo, un unico cibo, un’unica vitalità, un’unica anima. Quanto dobbiamo essere riconoscenti! Quanto dobbiamo capire l’Eucarestia, sacramento della nostra socialità, sacramento della nostra vitalità, sacramento attorno al quale noi diventiamo Chiesa e agiamo come Chiesa!

La virtù che può fiorire non può fiorire se non nell’Eucarestia. È nell’Eucarestia tutta la forza che c’è nella Chiesa, tutta la santità, tutto il fervore, tutto l’apostolato.

Dobbiamo, come comunità parrocchiale, sentire che c’è la necessità di celebrare l’Eucarestia uniti, di celebrare l’Eucarestia con molto entusiasmo e con molta forza. È attorno all’Eucarestia che possiamo dare testimonianza e possiamo portare agli altri la salvezza. L’Eucarestia, il mistero della carità infinita, il mistero che domanda il nostro amore, l’amore tra di noi, l’aiuto vicendevole, il senso di essere membra di un unico Corpo. Tutto, tutto dobbiamo imparare e tutto promettiamo di imparare.

Es 12,1-8. 11-14; 1Cor 11,23-26; Gv 13,1-15

“Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine”.

Questo memoriale della cena del Signore, dobbiamo cercare di entrare dentro, dentro al Suo cuore, dentro al Suo animo, per capire un po’ del Suo amore, per poter accogliere questo amore. Noi che siamo così indifferenti, siamo così freddi, siamo così pigri, abbiamo bisogno di mettere tutte le nostre energie per aprire la porta del nostro cuore al Signore. Perché la cosa più importante è proprio questa: capire quanto ti ha amato, quanto ci ama e come l’Eucarestia è il capolavoro del Suo amore che opera e che non sta mai quieto e che ha voluto essere sempre presente alla nostra vita di uomini, che nonostante tanta dimostrazione di carità, proseguiamo nei peccati, nei tradimenti, nei rinnegamenti, nelle cose più assurde.

Il Signore è venuto a insegnarci l’amore e noi proseguiamo nel nostro egoismo, nel nostro odio e nella nostra cattiveria. Il Signore si dà a noi nell’Eucarestia e noi, che più volte, tante volte, lo riceviamo, restiamo come prima, restiamo così, chiusi in noi stessi, restiamo certamente non ad esempio.

Dobbiamo allora meditare e imprimere nel nostro animo questo esempio di carità di Cristo che resta sotto l’apparenza del pane e del vino, di Cristo che si fa il servo di tutti. L’esempio dell’apertura della cena con la lavanda dei piedi, era l’esempio che trascinava dietro di sé tutti gli altri esempi, tutti i mirabili esempi, che avrebbero seguito nei secoli. Il Signore si rende nostro servo perché noi saliamo alla dignità, alla grandezza dell’amore. Il Signore ci ha amato, cioè il Signore vuole creare in noi delle nuove creature, vuole che noi ci ricordiamo sempre di essere opere delle mani di Dio, che ci ricordiamo sempre che siamo stati riscattati dal peccato, dal Suo sangue, dal Suo dolore, dalla Sua angoscia. Vuole che ci ricordiamo come, abbandonando il peccato, amando gli altri, unendoci tutti nella Chiesa, facendo il Suo popolo, lasciandoci plasmare da Lui, compiamo il grande progetto che il Signore aveva sulla nostra umanità.

Costruire, edificare. La società nuova degli uomini è possibile che sia nell’amore, nella pace, nella concordia, nell’aiuto vicendevole, nella comprensione degli infermi, dei deboli, nella solidarietà con quelli che patiscono e con quelli che sono nella miseria, è possibile, dico, solo in Lui e solo con Lui. Quanto ci dobbiamo rammaricare che l’Eucarestia non sia tenuta da noi, così, al centro di tutti i nostri interessi, che non sia capita come la sorgente di ogni bene, per noi e per gli altri.

Andiamo a Gesù. Andiamo questa sera con uno spirito nuovo, con una grande generosità, con un grande fervore. Compiamo nella nostra vita questo miracolo, il miracolo di restare nell’amore dell’Eucarestia e di portarla agli altri. compiamo questo miracolo per essere veramente degni di esser chiamati Suoi amici.

“Io vi ho chiamato amici”. È proprio questa sera che l’ha detto: “Vi ho chiamato amici”. Suoi amici. Sì, uniti sempre a Lui, uniti sempre da Lui.

Rm 6, 3-11; Mt 28, 1-10

MEZZANOTTE

E dall’alba di quel primo giorno si ripercuote nei secoli: “È risorto” (Mt 28, 6). Nostro Signore nello splendore della sua potenza, nella maestà della sua divinità “è risorto”. I nemici lo avevano crocefisso, avevano sigillato il sepolcro, avevano posto le guardie, ma Gesù è risorto e Gesù vince e Gesù regna. Lungo i secoli ancora gli uomini hanno cercato di costruire un sepolcro, di mettere dei sigilli, di porre delle guardie: niente vale, Cristo è Signore, quelli che hanno paura, quelli dalla fede scarsa e fumogena. Cristo è risorto, Cristo Signore è re, Cristo Signore ha in mano tutto l’universo. Chi si affida a Lui si affida alla sicurezza totale, piena, assoluta. Ecco perciò che la gioia della risurrezione deve rendere più viva, più operante, più completa la dimostrazione della nostra fede. Troppo spesso siamo tentati di essere dei cristiani a metà, dei cristiani accomodanti, dei cristiani che cercano con un piede la terra e con l’altro vorrebbero il cielo. Non è possibile!

Un cristiano deve essere responsabile e logico, deve sentire che quanto gli promette Cristo è la cosa più sicura, assolutamente inequivocabile. Quello che ha detto Cristo è la verità: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14, 6). Ecco perché a fronte alta e con il cuore che batte forte dobbiamo proclamare il nostro credo, dobbiamo proclamare le conseguenze del nostro Credo, dobbiamo vivere lietamente la nostra vita terrena, sapendo che Dio ci ha dato in Cristo la speranza dei beni futuri.

E ancora in questa notte di Risurrezione deve essere un inno potente alla vita. Cristo è passato per la morte per dare un senso grande alla vita. La vita vale molto. La vita discende dal cuore di Dio e Dio ci ha creati per vivere, vuole che ogni vita fiorisca e si affermi e ci ha dato in Cristo una vita soprannaturale. Ben a ragione in questa notte daremo il sacramento del Battesimo, perché riesce così ancora con più evidenza questo inno magnifico alla vita, questa proclamazione grande e piena dell’amore di Dio, che si comunica agli uomini di buona volontà. Rifiutare la vita, negare la vita, uccidere la vita è un grande peccato verso il Signore. L’uomo non è arbitro della vita. L’uomo è partecipe della vita, che gli dà Dio, e deve rispettare la vita in ogni momento e in tutte le circostanze. Un inno alla vita è perciò un inno all’amore, perché gli uomini non si amano abbastanza. Redenti dal sangue di Cristo, che ha dato tutto perché gli uomini siano fratelli, gli uomini non si amano, gli uomini non si aiutano, gli uomini sono sepolti nell’egoismo, gli uomini non comprendono e non sanno. E noi, e noi con profondo senso di fede dobbiamo ripetere a tutti gli uomini che l’amore deve essere il clima unico della società degli uomini. Amarsi, amarsi così in una progressione meravigliosa di cose. “Dio ha fatto bene tutte le cose”. Lo leggevamo prima leggendo il Genesi: “Dio ha fatto bene tutto”(Cfr Gn 1, 31) e ha rinnovato l’uomo mirabilmente. Nella sua carità si realizzi perciò la nostra vita più sincera, più forte, più completa, più dinamica, una vita cristiana piena e forte nella gloria grande del Signore.

At 10, 34.37-43; Col 3, 1-4; Gv 20, 1-9

ore 11

Ci auguriamo Buona Pasqua, ci auguriamo cioè la pienezza del Cristo, perché la nostra Pasqua è Lui. È Lui la nostra speranza, è Lui la nostra vera indistruttibile gioia. Quando si compì il tradimento, l’evangelista nota: “Era notte” (Gv 13, 30). Quando avviene la Resurrezione, ecco è la chiarezza del mattino. L’uomo ha bisogno di luce, cioè ha bisogno di speranza, ha bisogno di avere dei valori che resistono a tutta la confusione, a tutta la tragedia che si svolge nel mondo. Abbiamo bisogno di valori solidi, intramontabili e Gesù ce li dona nella sua Pasqua, perché, come è morto per noi, ancora è risorto per noi. “Morte e vita si sono affrontate e la vita ha vinto la morte” (Sequenza), l’ha vinta in Se stesso, l’ha vinta per tutti noi. È allora un’atmosfera di grande speranza, di grande certezza. La vita non è una cosa che l’uomo possa buttar via per gli altri e per se stesso. L’esistenza ha un grande valore, perché è stata riscattata da Lui. Riscattata dal peccato e riscattata dal trionfo definitivo della morte, perché tutto ha un senso, se lo guardiamo con Gesù risorto. È quel sepolcro vuoto, è quella certezza storica, è quell’amore che abbiamo toccato: “L’agnello ha redento il suo gregge”(Id). È qui il senso della vita, è qui che dobbiamo insistere. Il senso della vita allora è conformarla alla vita di Cristo, perché dice l’apostolo che “se siamo morti con Lui, risorgeremo con Lui” (Rm 6, 5.8). Ognuno di noi ha bisogno di vincere i fermenti della malizia, i nostri cattivi istinti. Ognuno di noi ha bisogno di vincere l’egoismo, ha bisogno di sapersi accontentare, ha bisogno di capire gli altri e di essere capito. Ha bisogno di realizzare un senso al suo agire, al suo patire, alla sua sofferenza, alla sua umiliazione. L’uomo non è fatto per la terra, è fatto per l’eternità. Ecco perché capiamo le parole che abbiamo appena letto dell’apostolo: “Se siete risorti cercate le cose di lassù, pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra”. La terra troppo ci occupa, troppo ci soffoca, troppo ci impedisce i movimenti come fossimo paralitici. Bisogna tornare nella linea di Gesù: bontà, amore, altruismo, impegno, rispetto della legge di Dio. Dio ci ha dato la legge – i suoi adorabili comandamenti – ce l’ha data perché noi potessimo avere la strada sicura e avessimo i parametri per camminare sicuri. Rispetto della sua legge! Quando infrangiamo la legge di Dio, poniamo anche una causa della nostra infelicità. Inginocchiamoci davanti a Cristo risorto. Promettiamogli di vivere come Lui ci ha detto. Deponiamo il nostro orgoglio. Vogliamo bene agli altri, pratichiamo le opere buone, cerchiamo di essere umili e sereni, cerchiamo di compiere fino in fondo il nostro dovere, e allora si verificheranno le altre parole dell’apostolo: “La vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio“. Una vita in Cristo come un seme nascosto, ma che germoglierà nella pace, nella vita piena, nella gloria.

Per conoscere di più su don Pietro Margini, fondatore del Movimento Familiaris Consortio, visita il sito.

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